Non è ottenendo ciò che più ci manca (tanto meno stando nella perenne attesa di ottenerlo) che troveremo la gioia, la serenità, la pace e la tranquillità a cui tanto aspiriamo per considerare la nostra vita degna di essere vissuta, è un'illusione, un auto-inganno. Chi ha molto, chi ha troppo, chi pensa che sia tutto lì e gli altri si fottano, diventa superficiale, inetto, incapace di guardare la realtà e di dare un minimo di senso alla propria vita o meglio di cogliere quello essenziale. Solo partendo dal dato di fatto, dal postulato che la vita è difficile, dura, cruda e non ce n'è un'altra, solo convincendosi di ciò ci si rende conto di essere depositari anche di altre possibilità e potenzialità; e allora, solo allora si può cominciare a sperimentare ciò che riteniamo inderogabilmente giusto. Io non conosco nessuno, proprio nessuno che sia esentato da una qualche difficoltà di una certa rilevanza e durevolezza e con poche o nulle soluzioni di sorta, non chi abbia il dono della salute, non chi non abbia difficoltà economiche, non chi non ha figli, non chi è giovane... nessuno!
La vera chiave di lettura della vita è l'ironia, guardare alle difficoltà e ai problemi con un sorriso, che sia anche amaro, ma un sorriso, per evitare di rimanere schiacciati. Ci si può lamentare, sfogare, piangere finché si vuole perché è salutare, ma ad un certo punto è necessario, è fondamentale ritornare a tenere i piedi ben saldi a terra, che se da un lato significa dare per scontato che i problemi sono sempre dietro l'angolo, dall'altro significa rendersi conto che le sfaccettature positive, forse dietro due o tre angoli più in là, sono più di quelle che pensiamo.
domenica 2 dicembre 2012
martedì 1 maggio 2012
Voglia di vivere
Sono ormai certo che, senza la distrofia di Becker (...o del beckér*) tra i mitocondri, la mia vita non sarebbe meno dura.
È vero, potrei muovermi come mi pare e piace, alzarmi e sedermi quando m’aggrada o rigirarmi nel letto senza fare ad ogni (quarto di) giro un round di lotta greco-romana (finché ci riesco) o afferrare le cose senza verificare che pesino meno di cinquanta grammi e che siano più spesse di due centimetri... Probabilmente però starei a correre anch'io come un centometrista inseguito da un branco di lupi affamati per riuscire a far quadrare tempi e bilanci familiari, a sperare - visti i tempi - di non perdere il lavoro, se pur non è proprio quello che mi soddisfa appieno e non è ciò per cui ho studiato. Di sicuro sarebbe una vita più complicata (meno per chi ogni giorno mi fa da piedi, gambe, braccia e mani), più freneticamente ritmata e magari stressata, per trovare i giusti incastri quotidiani, perché la possibilità di stare con gli amici resta in coda sulla tangenziale e la coltivazione dei miei interessi deve appassire di fronte ai figli che invece hanno bisogno del mio interesse per coltivarsi; per cercare di combinare qualcosa di giusto (cioè secondo giustizia) in e per questo mondo pro o regredito che sia, salvo piuttosto far parte di quegli esseri che ingiustamente si vogliono definire umani...
Insomma sì, starei meglio senza la distrofia tra le pa...rti muscolari e non dico che non vorrei guarire da 'sta malattia c'Annibale, ma non mi illudo più che un'eventuale vita da uomo abilmente sano renderebbe di maggior sana e robusta costituzione la mia voglia di vivere, che ora come ora pare proprio felicemente abbondare e di giorno in giorno rinnovarsi.
(*in dialetto bresciano: macellaio)
È vero, potrei muovermi come mi pare e piace, alzarmi e sedermi quando m’aggrada o rigirarmi nel letto senza fare ad ogni (quarto di) giro un round di lotta greco-romana (finché ci riesco) o afferrare le cose senza verificare che pesino meno di cinquanta grammi e che siano più spesse di due centimetri... Probabilmente però starei a correre anch'io come un centometrista inseguito da un branco di lupi affamati per riuscire a far quadrare tempi e bilanci familiari, a sperare - visti i tempi - di non perdere il lavoro, se pur non è proprio quello che mi soddisfa appieno e non è ciò per cui ho studiato. Di sicuro sarebbe una vita più complicata (meno per chi ogni giorno mi fa da piedi, gambe, braccia e mani), più freneticamente ritmata e magari stressata, per trovare i giusti incastri quotidiani, perché la possibilità di stare con gli amici resta in coda sulla tangenziale e la coltivazione dei miei interessi deve appassire di fronte ai figli che invece hanno bisogno del mio interesse per coltivarsi; per cercare di combinare qualcosa di giusto (cioè secondo giustizia) in e per questo mondo pro o regredito che sia, salvo piuttosto far parte di quegli esseri che ingiustamente si vogliono definire umani...
Insomma sì, starei meglio senza la distrofia tra le pa...rti muscolari e non dico che non vorrei guarire da 'sta malattia c'Annibale, ma non mi illudo più che un'eventuale vita da uomo abilmente sano renderebbe di maggior sana e robusta costituzione la mia voglia di vivere, che ora come ora pare proprio felicemente abbondare e di giorno in giorno rinnovarsi.
(*in dialetto bresciano: macellaio)
venerdì 30 marzo 2012
Evoluzioni
In quest'era moderna, postmoderna o quello che è, anche i cani (e i gatti?) hanno imparato a guardare prima di qua e poi di là prima di attraversare la strada.
mercoledì 7 marzo 2012
Equilibrio
Anche quando il mare è calmo la barca ondeggia sempre un po'... salvo che sia incagliata o rimasta a riva.
venerdì 2 marzo 2012
La sabbia
Quante cose dovrei scrivere pensieri, idee, riflessioni, osservazioni...
Chissà se troverò la pazienza e il modo di farlo, forse quella per raccontarlo, perché mi sembra di avere miriadi di piccoli granelli di sabbia sparsi dentro di me, che sembrano tutti separati l'uno dall'altro pur essendo uno vicino all'altro...
Certo, penso ora che la sabbia è così composta, ma viene percepita come un'unica cosa, che crea una sorta di pavimentazione su cui è piacevole camminare a piedi scalzi, benché magari il passo non sia del tutto sicuro, ma è piacevole sentire che i piedi sono avvolti dalla sabbia, che quei granelli scorrono quando si alza il piede per fare il passo. Sì, la sabbia può anche essere fastidiosa se si è infilata nei vestiti dopo che ci siamo seduti o sdraiati su di essa...
Eppure in ogni caso è la sabbia come cosa unica, un unico insieme, con le sfumature che fanno le piccole dune, le orme, i piccoli canali, la luce che gioca con le ombre a volte più scure a volte più chiare, a creare forme, immagini secondo quanto può suggerire la fantasia...
Ma certo mi piacerebbe scrivere tutto quello che mi gira dentro, che si agita, che mi coinvolge, che mi sconvolge, di cui sono convinto, che vorrei dire prima o poi...
(29 ottobre 2010)
mercoledì 29 febbraio 2012
Tutta una balla?
Ancora penso e ripenso alla brevità
dei miei pensieri scorsi a cui accenno più in basso, in questa
pagina, rilevando una certa ripresa nel numero di parole usate nel
racconto del mio incontro ravvicinato con l’ultima pesca della
stagione.
E ieri m’è balenata un’idea…non
del tutto originale - perché forse avrei dovuto badarci già da un
po’ – ma che spiegherebbe questa ritrosia e un po’ tirchieria
nello sviscerare intuizioni e ragionamenti che si presentano qua e là
senza preavviso e con alto, se non altissssimo, grado di concisione.
In effetti le mie dita, ultimamente, si
muovono sulla tastiera del mio mac (lo dico così, non tanto
per dire…) e non solo, con lentezza un po’ più che in
precedenza; e considerando il fatto che ne uso solo alcune per
portare avanti lo scritto lettera per lettera, parola per parola, pur
riuscendo a battere sui tasti giusti anche senza guardare
(…invidiosi, eh?), be’, forse il mio cervello ritiene di doversi
adeguare alle mie riserve fisiche. Perché, diciamoci la verità, di
energia nelle mani ne ho sempre meno e sempre meno è il materiale
carnale a disposizione per lo stoccaggio di energie derivanti dal
nutrimento che introduco ogni giorno tre… - minimo – volte al
giorno con estrema attenzione e discernimento.
…O forse invece è tutta una balla
inventata dal mio cervello per farmi credere che posso manifestare la
mia espressività solo a condizione di avere un corpo funzionante,
quanto meno, se limitato nelle sue manifestazioni, che possa
mantenere un certo grado di funzionalità al di sotto del quale è
consigliabile non scendere… E considerando che la Becker-distrofia
è per sua naturale costituzione malattia propensa ad evolversi…
come fanno tutte le piazze affari in quest’ultimo periodo (e mi
chiedo se non sia ugualmente loro naturale costituzione piuttosto che
crisi del momento…) e rimedio ancora non ce n’è (ma quando
apriranno davvero gli occhi!…)…come dire…se la candela consuma
illuminando la stessa cera di cui è composta, è utile prepararne
un’altra prima di restare completamente al buio e senza la
possibilità di tenere accesa la fiamma (certo, a meno che si abbia
in qualche sperduta tasca almeno un cerino…).
(13 novembre 2008)
Più di due righe?!
E' da quel 16 settembre che penso e
ripenso che non mi par vero di aver scritto più di due righe, visto
l'andamento degli ultimi mesi dell'ispirazione per queste pagine...
Ma chissà... forse è perché vedo
troppa gente che smania e cerca, e trova facilmente, spazio webbico
dove esprimere il proprio punto di vista o dove esporre, ad ogni
costo, ad un vast...issimo pubblico le proprie
produzioni...artistiche...
Certo, faccio parte anch'io di quella
troppa gente - e quante ancora ne avrei da esporre di...varie cose -
benché ultimamente, sinceramente... pare ci tenga un po' di meno...
o meglio, forse preferirei un passaparola con passaggio di mano in
mano...come a volte - sempre ultimamente - mi succede...
Ogni tanto penso ad Emily Dickinson,
che ha tenuto le sue poesie chiuse in un cassetto finché è rimasta
in vita...forse le bastava scriverle, anzi indubbiamente...forse
mancava di fiducia nella propria ispirazione poetica. Poi, per
fortuna, qualcuno le ha fatte pubblicare e ancora oggi possiamo
leggerle e recitarle...benché tradotte...
Mah!... Che sia tempo, per me, di
voltare pagina? E magari questa pagina... chiuderla?...
(8 ottobre 2008)
Una pesca... non fa autunno
Dopo essere uscito a fare qualche commissione, mi piazzo in cucina e mangio una
pesca; e mentre me la gusto, mi rendo conto che sarà una delle ultime della stagione, se
non che magari sarà proprio l’ultima, ha una faccia...
Be’, in effetti l’estate è ormai finita, benché il famoso temporale di agosto che rinfresca il bosco si sia verificato solo qualche giorno fa. Meno male, ora come ora ho in gran bisogno di stare all’aria aperta e ho sinceramente benedetto il caldo delle prime due settimane di settembre, perché mi ha permesso di uscire solo sulle mie quattro ruote, invece di farmi scarrozzare con l'automezzo, che, benché utile, oltre ad essere ingombrante, inquina pure.
In ogni caso l’estate è proprio finita.
Ma è cominciato l’autunno! Con il suo cielo sereno particolarmente limpido (sarà perché ha piovuto fino a ieri?), con i suoi caldi colori vivaci e sfumati (di foglie che cadono...), i profumi di uva che fermenta (magari tra un po’, eh?), di castagne che arrostiscono (sì, e magari vin brulé...) e la magia della natura che rallenta i suoi ritmi...
Me la vedo, la natura, beatamente distesa su un fianco, sotto un albero in un prato, a gustarsi dell’uva, sgranellata lentamente, acino per acino, e intanto, mentre il sole scalda ancora un po' l'aria, alzare ironicamente un sopracciglio e domandarsi sottovoce: “Ma che avranno da correre tutti quanti...!”.
(16 settembre '08)
Be’, in effetti l’estate è ormai finita, benché il famoso temporale di agosto che rinfresca il bosco si sia verificato solo qualche giorno fa. Meno male, ora come ora ho in gran bisogno di stare all’aria aperta e ho sinceramente benedetto il caldo delle prime due settimane di settembre, perché mi ha permesso di uscire solo sulle mie quattro ruote, invece di farmi scarrozzare con l'automezzo, che, benché utile, oltre ad essere ingombrante, inquina pure.
In ogni caso l’estate è proprio finita.
Ma è cominciato l’autunno! Con il suo cielo sereno particolarmente limpido (sarà perché ha piovuto fino a ieri?), con i suoi caldi colori vivaci e sfumati (di foglie che cadono...), i profumi di uva che fermenta (magari tra un po’, eh?), di castagne che arrostiscono (sì, e magari vin brulé...) e la magia della natura che rallenta i suoi ritmi...
Me la vedo, la natura, beatamente distesa su un fianco, sotto un albero in un prato, a gustarsi dell’uva, sgranellata lentamente, acino per acino, e intanto, mentre il sole scalda ancora un po' l'aria, alzare ironicamente un sopracciglio e domandarsi sottovoce: “Ma che avranno da correre tutti quanti...!”.
(16 settembre '08)
Il gioco della vita
Un giorno dell'autunno 2006.
Ripenso a tutte le volte in cui, mentre sono in giro con la mia carrozza, incontro i bambini, soprattutto i più piccoli; succede in qualche parco, su una pista ciclabile, in riva al lago, sempre in compagnia di mamma o papà o a poca distanza da loro. E’ quasi matematico che i bambini, quando mi vedono arrivare, allunghino subito il loro ditino a indicarmi, alzando uno sguardo interrogativo verso il genitore o nonno che sia; i più grandi fanno una vera e propria domanda: perché va in giro così? Oppure: come fa a andare da sola? I genitori più intelligenti rispondono alle domande legittime dei loro figli con chiarezza e disponibilità, mi salutano e invitano i piccoli a fare altrettanto; alcuni, pochissimi (santi uomini e sante donne… anzi, santi papà e sante mamme), incoraggiano i bambini a rivolgere a me le loro domande.
Poi ci sono quelli, invece, che fanno finta di non vedere e di non sentire, e tirano i figli per un braccio perché non indugino nel disagevole incontro, senza dire niente, se non forse ‘vai avanti’ o ‘dai vieni’; i bambini salutano, mentre sembra proprio che gli adulti non sappiano che pesci pigliare… oppure pensano in effetti di avere a che fare proprio con dei pesci… e se lo fossimo davvero?
A parte questa riflessione introduttiva sulla capacità (o incapacità… mh… disabilità?) delle persone di dare uno sguardo omnicomprensivo della realtà senza timori e… imparano ai figli a fare lo stesso, volevo concentrare il mio pensiero sui bambini e sul loro modo di concepire la vita, senza la pretesa di fare il pedagogo o il sociologo infantile, di quelli per intenderci che vogliono dire qualcosa su qualcunaltro che vive un’esperienza… speciale, con la presunzione di conoscere il caso in tutte le sue variabilità e quindi di sapere cosa è necessario fare e quali atteggiamenti è utile assumere (dove l’ho già sentita questa…?) perché la persona viva fino in fondo la sua quotidianità. Naturalmente ci sono anche quelli che hanno la sensibilità necessaria per riuscire a comprendere realmente le persone di cui si occupano o si prendono cura. Ma tornando ai bambini, mi colpisce sempre molto quanta meraviglia esprimano quando si avvicinano e affrontano ciò che per loro è sconosciuto fino a quel momento, e con quella sana curiosità che permette di comprendere la realtà nel vero senso della parola, cogliendo tutte le sue sfaccetature. Ma più di tutto è che i bambini hanno la splendida capacità di trasformare una cosa seria come una carrozzina elettronica (oddio… seria… forse per quello che costa!) nell’ispirazione per un nuovo gioco di fantasia. E se gli spieghi che devi usarla perché hai difficoltà a camminare o non riesci a stare in piedi, e che va da sola perché c’è una batteria ricaricabile, accolgono la notizia con tranquillità, come una cosa naturale, nuova, ma naturale. Il bello è che i bambini non si fermano qui: hanno la straordinaria capacità di rapportarsi con una persona con disabilità con molta naturalezza; non vedono nella diversità di un tipo che si muove seduto su una sedia a tre o quattro ruote un limite alla possibilità di giocare con lui, fare domande (quante a volte!!), raccontare quel che fanno, mostrare con orgoglio i propri quaderni di scuola o spiegare per filo e per segno il funzionamento di tutti (!!) i giochi assiepati sulla libreria. Potrebbero addirittura considerare la mia carrozzina elettronica, visto il joystick e le molteplici funzioni opzionali, una sorta di videogioco reale, una fonte di sano divertimento, che in quanto tale è profondamente educativo. Eh, i bambini… Per fortuna che ci sono loro! Gli adulti dovrebbero sforzarsi un po’ di più di mettersi alla loro altezza per comprenderli davvero ed amarli ed educarli in modo adeguato; e ad imparare da loro a vivere la vita di ogni giorno, nonostante tutto, con un po’ più di leggerezza e di stupore.
(11 aprile 2007)
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Giorni di passaggio
Ci sono giorni di passaggio durante i quali si ha la sensazione che quello che si è fatto fino a quel momento non abbia più molto senso e sia necessario ricominciare da capo, per entrare in una nuova logica alla luce della quale rivedere molto di quanto si è costruito, se non addirittura tutto, fosse solo per sistemare qualche piccolo dettaglio qua e là.
I giorni di passaggio sono caratterizzati da un certo smarrimento perché costituiscono la fine di un periodo e l’inizio del nuovo che non è ancora avviato; oppure perché il nuovo è cominciato in un attimo, più in fretta della propria capacità di adattamento e di rinnovare la messa in gioco delle proprie facoltà.
Avviene anche per i passaggi di stagione; certo, ora come ora non sono così chiari, ma avvengono comunque, perché la terra non cambia il suo percorso ellittico intorno al sole e quindi si modifica, per es., la durata del giorno e della notte e di conseguenza i ritmi quotidiani.
Così avviene nel passaggio dall’inverno, o quel che ne resta, alla primavera: è necessario cambiare abbigliamento, usare coperte diverse, alimentarsi in modo diverso…
Ma ci sono giorni di primavera (anche d’autunno in effetti) in cui non si sa che cosa indossare, perché un giorno di marzo è già estate e il giorno dopo è di nuovo fine gennaio, o in uno stesso giorno si alternano caldo, sole, freddo e pioggia; sta finendo una stagione, ma la successiva non è ancora iniziata…
E d’altronde la vita è un continuo passaggio da un momento all’altro, da un’emozione all’altra, dalla tristezza alla gioia, dall’equilibrio allo squilibrio, dalla chiarezza al dubbio per ritrovare nuova chiarezza…, il tutto (si spera) verso una crescente e rinnovata consapevolezza di sé che porti, o almeno ci avvicini, all’espressione totale delle proprie facoltà e quindi al senso profondo della nostra esistenza.
Avviene anche per i passaggi di stagione; certo, ora come ora non sono così chiari, ma avvengono comunque, perché la terra non cambia il suo percorso ellittico intorno al sole e quindi si modifica, per es., la durata del giorno e della notte e di conseguenza i ritmi quotidiani.
Così avviene nel passaggio dall’inverno, o quel che ne resta, alla primavera: è necessario cambiare abbigliamento, usare coperte diverse, alimentarsi in modo diverso…
Ma ci sono giorni di primavera (anche d’autunno in effetti) in cui non si sa che cosa indossare, perché un giorno di marzo è già estate e il giorno dopo è di nuovo fine gennaio, o in uno stesso giorno si alternano caldo, sole, freddo e pioggia; sta finendo una stagione, ma la successiva non è ancora iniziata…
E d’altronde la vita è un continuo passaggio da un momento all’altro, da un’emozione all’altra, dalla tristezza alla gioia, dall’equilibrio allo squilibrio, dalla chiarezza al dubbio per ritrovare nuova chiarezza…, il tutto (si spera) verso una crescente e rinnovata consapevolezza di sé che porti, o almeno ci avvicini, all’espressione totale delle proprie facoltà e quindi al senso profondo della nostra esistenza.
(12 marzo 2007)
Cos'è per me il Natale
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Tutti a casa
Mi ha fatto riflettere sentire alla radio uno spot pubblicitario che proponeva di accendere un mutuo tramite internet, con tasso iper-agevolato e quote di rimborso irrisorie (che poi… accendere? ci si può anche bruciare!).
L’era di internet sta cambiando il nostro sistema di vita, io stesso ne faccio uso quotidianamente. Ma se da un lato questo strumento è davvero utile per molte cose (studio, trasmissione dati, comunicazioni, etc.), dall’altro sembra togliere peso (e forse non per niente è virtuale) ad una serie di usi e costumi che hanno costituito in passato la salvaguardia di alcuni valori che ora sembrano passare in secondo piano. Ormai non c’è più bisogno di andare nei negozi per fare acquisti, o andare in banca per aprire un conto o per ottenere un prestito: no, basta accendere il computer (fisso, palmare o portatile che sia), collegarsi al sito preposto e fare tutto comodamente da casa. Certo, per una persona carrozzata o con difficoltà motorie, visti i problemi di mobilità che si possono presentare, può essere un vantaggio poter svolgere alcune attività senza spostarsi. Ma al di là del fatto che si possa fare meno strada, meno code, limitare lo stress, e trovare magari delle cose più particolari che producono solo al di là dell’oceano, ciò che più di tutto viene a mancare è il rapporto umano, la possibilità di chiedere a voce chiarificazioni su un prodotto o su un altro, sapere da una persona in carne ed ossa se sarà possibile trovare qualcosa che in quel momento non può fornire, instaurare un rapporto di fiducia con il libraio, il tecnico, il benzinaio. Vero è che a volte (oppure spesso) chi è preposto a fornire un servizio fa di tutto, anche dare le risposte nel modo più accattivante possibile, perché il potenziale cliente alla fine di una qualsiasi trattativa giunga all’acquisto o alla sottoscrizione del contratto. E quindi forse, anche per questo, si tende a voler fare le cose per proprio conto, pensando di poter trovare finalmente tutte le informazioni necessarie e capire in prima persona cosa significhi fare un’operazione piuttosto che un’altra.
Tolta l’utilità di alcune opportunità che internet può offrire, il resto mi mette un po’ di tristezza, in particolare questa tendenza a rinchiudersi fra le mura della propria casa e ridurre al minimo i contatti umani (per un aspetto diverso succede anche nei luoghi molto - a volte troppo - frequentati, vedi centri commerciali o locali con la musica alta). Sembra che si voglia circoscrivere il più possibile il proprio mondo ed evitare che qualcuno o chicchessia ci rompa le uova nel paniere. C’è una visione sempre più delimitata della realtà e basata sulla ricerca della maggior convenienza in ogni aspetto della vita. Per fortuna c’è ancora chi crede nel contatto umano, nella relazione a tu per tu e che, per es., ama farsi consigliare nella scelta dei libri, o vuole sentire la spiegazione di tutte le funzionalità di un elettrodomestico dalla viva voce del negoziante (sempre che sia una persona disponibile), o si lascia magari coinvolgere dal panettiere in una chiacchierata. Mi auguro che questa sia solo una fase di passaggio, di crisi di modelli che hanno bisogno di essere riletti e reinterpretati, per giungere ad un nuovo livello evolutivo (qualche piccolo segnale c’è già) che abbia come presupposto il desiderio di mettersi in gioco fino in fondo, dandosi l’opportunità, non solo di vivere una vita più semplice, ma anche di conoscere meglio le proprie vere e reali potenzialità, che oltre ad essere utili alla comunità, possono renderci più felici.
(13 dicembre 2006)
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Tradizioni da... digerire
Nonsi finirebbe mai di conoscere le tradizioni popolari che sitramandano di generazione in generazione, che riguardano un interopopolo o gli abitanti di una regione, di una città, o di un singolocomune e forse anche di un quartiere. Non ci sarebbe nemmeno dastupirsi che ci siano delle tradizioni che vengono portate avanti dagruppi di persone che, pur vivendo in luoghi diversi, si riuniscono edecidono di dedicare parte del loro tempo a coltivare un interesse, adedicarsi a situazioni di bisogno o a diffondere con varie attivitàun modello di pensiero.
Infondo è possibile pure che ogni nucleo familiare abbia i propri usie costumi, fosse anche solo per rispettare in maniera del tuttopersonale tradizioni proverbiali, dal classico “Natale con i tuoi,Pasqua con chi vuoi” (e sia a Natale che a Pasqua, a pranzo daimiei e a cena dai tuoi) al pratico “Mogli e buoi dei paesi tuoi”,ecc.
Letradizioni sono interessanti, al punto che spesso diventano soggettodi documentari, reportage, film; da esse si possono ricavare molteinformazioni sui diversi nuclei umani che vivono su questa terra,conoscerne la spiritualità, la filosofia, l’evoluzione storica, imotivi che hanno permesso il nascere di feste, riti e celebrazioni.
Letradizioni a volte sono curiose, inaspettate, impensate, soprattuttoquelle di gente che vive lontana da noi, con un sistema di vitatotalmente diverso dal nostro, di fronte alle quali magari ci sisente superiori e/o fortunati perché nati in un paese civilizzato,industrializzato, evoluto...
Masono curiose anche le tradizioni vicine, che a volte potrebberolasciare perplessi, non tanto perché possono infondere diffidenzaverso le persone che le tramandano, quanto per ciò che concretamenteesse comportano e per gli eventuali... postumi; potrebberoaddirittura divertire moltissimo.
Recentementesono venuto a conoscenza di una tradizione che si svolge, da chissàquanti anni, a Rezzato, il paese in cui vivo, il lunedì che segue lafesta patronale di S. Anna, che solitamente si celebra nella domenicasuccessiva al 26 luglio con la caratteristica processione verso ilSantuario della Madonna di Valverde.
Lamattina di quel lunedì, detto Sant’Anì (forse senza apostrofi omaiuscole), ho deciso di farmi una passeggiata, a bordo della miaturbo-carrozza, proprio dalle parti del santuario. Avendo deciso difar colazione fuori, erano circa le nove, mi sono diretto al vicinobar-ristorante; mentre entro nel cortile vedo un gruppo di uominiindaffarati a fare dei preparativi, alcuni a tagliare a listarelle etocchettini delle verdure, altri a preparare del pane, altri apredisporre bicchieri e a stappare bottiglie. Chiedo alla signora chemi porta cappuccino e briosche cosa stesse succedendo, se queisignori dessero una mano per il pranzo di quel giorno. No, mi dice lasignora. Stavano preparando l’occorrente per rispettare latradizione di Sant’Anì: in pratica la compagnia, fatta di signoridi una certa età, si ritrova per fare uno spuntino mattuttino checonsiste in un’abbondante insalata le cui verdure principali sonopeperoni e cipolle, naturalmente crude! A me si è stretto lo stomaco(la colazione l’ho fatta comunque con un certo gusto), perchél’idea di mangiare peperoni e cipolle a metà mattina...!D’altronde chissà quanta gente in passato l’ha fatto permancanza d’altro. E forse per rispettare questa tradizione, perfare memoria del tempo che è stato, si utilizzano ancora gli stessiingredienti. Non conosco la storia di questa tradizione, da cosa equando è nata; ma per quanto circoscritta la ritengo moltocaratteristica, celebrativa di valori semplici, di convivialità egiovialità che non guasta mai, benché il suo tramandarsi richieda,quanto meno, uno stomaco ben predisposto.
Neologismi
pubblicato su DM n.159 settembre 2006 con titolo "Perché non diversatili?"
Ormai noi, persone con problemi fisici o psichici, carrozzati o tripodizzati, più o meno presenti a se stessi, siamo abituati ad essere nominati ed etichettati con termini che si sono evoluti e trasformati nel tempo come si evolvono (o involvono) le mode e gli usi quotidiani di ogni società (quelle occidentali di sicuro); siamo di quelli riconoscibili, e nell’essere riconoscibili suscitiamo nelle persone una certa inquietudine, come, in fondo, la suscitano tutte le categorie di persone che devono essere riconosciute. Non sto ad elencarle, perché tanto le conosciamo tutti benissimo.
L’evoluzione, in particolare, della terminologia a nostro carico è stata caratterizzata dalla ricerca, un po’ intellettualista (o intellettualoide), di parole che fossero via via meno ghettizzanti, se non addirittura meno offensive (così almeno credono coloro che le hanno create). Così si è passati dall’essere definiti handicappati (termine sulla cui origine sarebbe interessante disquisire e che forse non è stata la prima definizione che ci ha riguardati - in Francia viene usato ancora oggi) a portatori di handicap (una sorta di facchini di sventura), alla successiva (credo) disabili (alias incapaci), fino alle più recenti definizioni (divenute parte integrante addirittura di una legge) che variano da persone-diversamente-abili (tutto attaccato come l’indirizzo di un sito web, che tra l’altro è virtuale) a quella specie di neologismo improbabile che è diversabili.
Che ci volete fare? Sembra che senza definizioni, categorie, indici puntati ed esigenza di trovare termini di sintesi, non possiamo assolutamente vivere. Quale sarà stata, vien da chiedermi or ora, la prima distinzione fra categorie di persone? Ricchi e poveri? Pensandoci bene sono parecchie le persone con difficoltà motorie o intellettive che non hanno grandi disponibilità economiche, se non addirittura che vivono poco sopra (o sotto) il livello della miseria. Non è un dettaglio che siano tra le persone che più avrebbero bisogno di denaro per...soddisfare esigenze di prima necessità. Ma anche questo è un altro capitolo.
Per tornare alla questione che ho inteso affrontare in queste righe, sento un irrefrenabile desiderio di lanciarmi in una ricerca spasmodica e affinata all’estremo di nuovi termini che definiscano ancor meglio (o non definiscano affatto) la condizione di noi, uomini e donne, diversi e diversificati (o diversificanti... diversignificanti! Ah, questo sì!).
In particolare verrebbemi da considerare eventuali varianti sintattiche e ortografiche, nevvero, dei termini più recentemente... creati (sicuramente da persone definite - forse da loro stesse - normodotate: altro termine da sviscerare, semmai). Perché non trasformare il neologismo diversabili con uno del tipodiversatili? Una persona versatile sa trovare diverse vie per esprimere la propria personalità, sa adattarsi e trovare soluzioni alle situazioni più disparate. Chi meglio, dico io, di una persona malata, fisicamente o mentalmente o, perché no, emotivamente, sa trovare nuove vie di espressione o nuove soluzioni di movimento, o di abitabilità, o di qualsiasi altro problema si presenti ogni volta che va in vacanza o va dal panettiere o cerca di farsi strada tra la folla che non guarda dove mette i piedi? Se non sbaglio il suffisso di- (o infisso?) rende doppio il significato di una parola, n’est-ce pas? Del tipo... dialisi, oppure distrofia, oppure digeridoo...? No, forse non è proprio così. Ma d’altronde le persone con disabilità, altro che doppiamente versatili! Siamo anche tri, quadri, penta-versatili! Siamo dei super-eroi! A noi dovrebbero dare la medaglia al valore o essere nominati cavalieri della tavola rotonda!
In ogni caso, ognuno di noi, persone con qualche problema ritenuto abbastanza grave da limitarci nel vivere quotidiano, siamo quello che siamo, e al di là di come la gente ci definisce o ci etichetta, o ci limita con le proprie barriere mentali, possiamo vantarci di essere profondamente reali, non si può barare (anche se molti provano ad imitarci), non c’è da fare un atto di fede. I primi però che devono aprire gli occhi siamo noi; noi i primi che devono superare le barriere interiori, i primi che di fronte ad un limite di siffatta misura, sanno trovare il senso profondo della propria esistenza. E proprio perché così sfacciatamente limitati ed evidenti, sarebbe utile che il senso della nostra esistenza lo trovassimo, al di là del nostro limite, un po’ più in profondità.
L’evoluzione, in particolare, della terminologia a nostro carico è stata caratterizzata dalla ricerca, un po’ intellettualista (o intellettualoide), di parole che fossero via via meno ghettizzanti, se non addirittura meno offensive (così almeno credono coloro che le hanno create). Così si è passati dall’essere definiti handicappati (termine sulla cui origine sarebbe interessante disquisire e che forse non è stata la prima definizione che ci ha riguardati - in Francia viene usato ancora oggi) a portatori di handicap (una sorta di facchini di sventura), alla successiva (credo) disabili (alias incapaci), fino alle più recenti definizioni (divenute parte integrante addirittura di una legge) che variano da persone-diversamente-abili (tutto attaccato come l’indirizzo di un sito web, che tra l’altro è virtuale) a quella specie di neologismo improbabile che è diversabili.
Che ci volete fare? Sembra che senza definizioni, categorie, indici puntati ed esigenza di trovare termini di sintesi, non possiamo assolutamente vivere. Quale sarà stata, vien da chiedermi or ora, la prima distinzione fra categorie di persone? Ricchi e poveri? Pensandoci bene sono parecchie le persone con difficoltà motorie o intellettive che non hanno grandi disponibilità economiche, se non addirittura che vivono poco sopra (o sotto) il livello della miseria. Non è un dettaglio che siano tra le persone che più avrebbero bisogno di denaro per...soddisfare esigenze di prima necessità. Ma anche questo è un altro capitolo.
Per tornare alla questione che ho inteso affrontare in queste righe, sento un irrefrenabile desiderio di lanciarmi in una ricerca spasmodica e affinata all’estremo di nuovi termini che definiscano ancor meglio (o non definiscano affatto) la condizione di noi, uomini e donne, diversi e diversificati (o diversificanti... diversignificanti! Ah, questo sì!).
In particolare verrebbemi da considerare eventuali varianti sintattiche e ortografiche, nevvero, dei termini più recentemente... creati (sicuramente da persone definite - forse da loro stesse - normodotate: altro termine da sviscerare, semmai). Perché non trasformare il neologismo diversabili con uno del tipodiversatili? Una persona versatile sa trovare diverse vie per esprimere la propria personalità, sa adattarsi e trovare soluzioni alle situazioni più disparate. Chi meglio, dico io, di una persona malata, fisicamente o mentalmente o, perché no, emotivamente, sa trovare nuove vie di espressione o nuove soluzioni di movimento, o di abitabilità, o di qualsiasi altro problema si presenti ogni volta che va in vacanza o va dal panettiere o cerca di farsi strada tra la folla che non guarda dove mette i piedi? Se non sbaglio il suffisso di- (o infisso?) rende doppio il significato di una parola, n’est-ce pas? Del tipo... dialisi, oppure distrofia, oppure digeridoo...? No, forse non è proprio così. Ma d’altronde le persone con disabilità, altro che doppiamente versatili! Siamo anche tri, quadri, penta-versatili! Siamo dei super-eroi! A noi dovrebbero dare la medaglia al valore o essere nominati cavalieri della tavola rotonda!
In ogni caso, ognuno di noi, persone con qualche problema ritenuto abbastanza grave da limitarci nel vivere quotidiano, siamo quello che siamo, e al di là di come la gente ci definisce o ci etichetta, o ci limita con le proprie barriere mentali, possiamo vantarci di essere profondamente reali, non si può barare (anche se molti provano ad imitarci), non c’è da fare un atto di fede. I primi però che devono aprire gli occhi siamo noi; noi i primi che devono superare le barriere interiori, i primi che di fronte ad un limite di siffatta misura, sanno trovare il senso profondo della propria esistenza. E proprio perché così sfacciatamente limitati ed evidenti, sarebbe utile che il senso della nostra esistenza lo trovassimo, al di là del nostro limite, un po’ più in profondità.
Incontrarsi
pubblicato tra le lettere al direttore su Bresciaoggi del 18 agosto 2006
Un pomeriggio estivo non troppo caldo, durante i miei nomadismi sulle piste ciclabili e non del mio territorio, a bordo della mia carrozza (alias sedia a rotelle elettronica per esterno - specifico perché qualcuno ha pensato ad un calesse tirato da un pony, rivelandomi poi, scoperto l’arcano, che la cosa gli suonava un po’ strana), ho fatto caso ad un piccolo assembramento di persone all’angolo di una strada, dalla parlata intuivo che provenivano dall’estero. Mi sono chiesto, guardandoli, se oggi noi italiani abbiamo ancora dei punti di ritrovo nel paese o nel quartiere dove ci si ritrova senza darsi appuntamento, dove si sa di trovare qualcuno con cui passare un po’ di tempo. Certo, l’oratorio, il bar...
Ho l’impressione che dalle nostre parti si sia persa quella che definirei la cultura di quartiere, il sapersi incontrare senza tante pre... non saprei come definirle, precognizioni, preparazioni, appuntamenti, accordi telefonici su giorno ora e luogo per fare quattro chiacchere. E’ vero che oggi la gente è impegnata e i ritmi sono frenetici, ma forse basterebbe meno di quanto si pensa... Mi è piaciuto un giorno trovarmi davanti al cancello di casa un’amica che non mi aveva avvisato del suo arrivo. L’episodio, per altro, ha avuto una certa... magia: io, con un messaggio via etere, le ho chiesto di passare a trovarmi, senza specificare quando; lei - me lo disse una volta tornata a casa - quel giorno aveva dimenticato a casa il telefonino...
Pur raro, non è stato l’unico episodio: marito e moglie, recenti amici, passati a trovarmi a sorpresa, una al mattino (l’ho saputo poi perché ero uscito) e l’altro al pomeriggio dello stesso giorno, e lo scoprono la sera a casa...
E’ vero, sono io il primo ad avere amici sparsi per la provincia e per l’Italia e a frequentare loro e non quelli del paese o del quartiere (allo stesso modo quelli del paese con me); certo, gli amici da frequentare si scelgono per medesimo sentire, interessi comuni e occasioni scelte e forse pretendo troppo da questo mondo in evoluzione (...ma verso cosa?).
Nello stesso pomeriggio di gita (un sabato?... mah!) ho fatto caso che in giro ci sono molti musi lunghi, occhi fissi davanti a sé, ognuno... perso nei suoi pensieri o nel cellulare (mi chiedo a volte cosa ci faccia una persona col cellulare in mano mentre si fa un giro in bicicletta!). Così, seduta stante (...eh eh eh, divertente il lapsus!), ho iniziato a salutare chi incontravo, con un ‘salve’ oppure ‘ngiorno’, ‘buondì’. La cosa divertente è che ci si saluta all’ultimo secondo, quasi per titubanza, per cui alle orecchie di uno arriva un veloce e flebile ‘...lve’ e all’altro un appena percettibile ‘...rno!’.
Interessante è notare le diverse reazioni dei salutati: c’è chi ti risponde con un sorriso, chi saluta per primo, chi ricambia, ma lo fa con una faccia molto seria e il collo rigido, chi guarda torvo e non risponde, qualcuno rimane addirittura sorpreso e saluta volentieri.
Devo anche dire che non saluto proprio tutti, ci sono dei ‘treni’ di ciclisti che sfrecciano a pedalate tanto potenti che salutarne uno per tutti è già tanto; e poi non è così facile avendolo fatto solo qualche volta in montagna (là ci si saluta quasi tutti); certe persone hanno un’aria talmente seria e burbera che mi dico ‘questo non gradisce’ e passo oltre.
Però riprendere quest’abitudine mi dà un certo senso di leggerezza, di scambio, di reciprocità, di libero incontro. Non cambierà il mondo (mi sono stupito un giorno di quanti cerchi d’onda può generare un sassolino gettato in un lago), ma almeno la passeggiata in sulle vie ciclo-pedo-rotabili diventa più spensierata.
QUEL CHE SI E’
pubblicato
tra le lettere al direttore su Bresciaoggi del 4 agosto 2006
Ho potuto vedere un video su Tiziano Terzani, composto soprattutto
da suoi interventi audio e video fatti durante la sua intensa vita e
quelli più recenti da cui è nato il suo ultimo libro, curato dal
figlio Folco. Mi ha colpito la sua libertà interiore, una libertà
che l’ha portato ad essere ciò che è stato e ciò che è ancora
oggi, anche per chi come me lo conosce pochissimo. Ricordo un
particolare riguardante i tagli dei suoi articoli, fatti per motivi
di vario genere, da parte di chi curava l’edizione del giornale per
il quale scriveva: diceva Terzani che lui si sentiva libero, o forse
sentiva il dovere, di scrivere per filo e per segno ciò che pensava
e lasciava altrettanto libero l’incaricato di apportare i tagli che
meglio credeva ai suoi pezzi; poi lui, comunque, utilizzava gli
avanzi per scrivere i suoi libri.
La cosa su cui riflettevo
maggiormente mentre guardavo il servizio, più che altro ascoltavo, è
che Terzani non ha voluto diventare quel che è diventato, ma ha
soltanto messo in circolo le sue riflessioni, le sue idee, le
osservazioni fatte durante le sue migrazioni per il globo, il resto è
venuto da sé. La mia riflessione riguarda un punto che ritengo
essenziale: non è importante quante persone ti conoscono o quanti
libri o dischi (??) sei riuscito a pubblicare; quello che conta è
trovare la propria coerenza e la propria via, senza nasconderla o
esigere che venga conosciuta dal mondo solo a particolari condizioni.
Tanto più che oggi c’è quasi una sorta di... anzi, c’è proprio
un intasamento di gente che scrive, compone, canta e vuole dire la
propria, per cui comincio a pensare che sia già buona cosa avere il
mio (piccolo) angolo di cielo e ciò che viene in più non può che
essere provvidenzialmente ben accetto.
Un’altra riflessione di questi
giorni si lega un po’ a questo. Mi succede (per fortuna non sempre,
se non raramente) che quando racconto delle canzoni che scrivo, della
radio, dei racconti, le persone (probabilmente per i soliti
preconcetti duri a morire nei confronti delle persone con disabilità)
mi dicano: ‘Ah, ecco, almeno ti passa il tempo’. Le prime volte
mi dicevo: ‘mi passa il tempo? come mi passa il tempo? dò spazio
alla creatività ed è solo passare il tempo?’. Ora come ora mi
vien da pensare che quello che sono non dipende da come gli altri mi
vedono o cosa pensino al riguardo (anche se questo a volte crea
problemi... eh!) o cosa concretamente riesco a far conoscere delle
mie creazioni. Certamente internet dà delle possibilità a questo
riguardo, ma allo stesso tempo è una tale babele, sia nel bene che
nel male, che è già tanto se gli amici, che io stesso avviso (eh eh
eh!!), leggono o ascoltano ciò che scrivo, recito o canto.
Cambia la prospettiva trovare la
pace in ciò che si è, piuttosto che esigere ciò che si vorrebbe di
più: non è più importante produrre, diventa essenziale essere.
Nuovi particolari
un giorno o l'altro fra luglio e agosto 2006
La vita è un eterno passaggio di momenti che restano unici, ma succede spesso che ci si dimentichi di ciò. Quanti vorrebbero che una situazione, uno stato d’animo, un periodo della propria vita durasse per il resto dei nostri giorni. Ma siamo innanzitutto noi che cambiamo, che evolviamo, nel bene o nel male, non siamo mai gli stessi: se il sole di solito ci mette di buon umore, potrebbe infastidirci il giorno in cui fa troppo caldo. Siamo così, siamo volubili, la vita stessa è volubile, lo è la natura, il clima, e ogni giorno, o addirittura ogni istante, fa storia a sé, non è ripetibile; e anche se ciò fosse possibile non lo rivivremmo allo stesso modo. La soluzione? Sarebbe quella di accogliere ogni istante, ogni evento, ogni cambiamento della propria vita con serenità, cogliendo quel momento come l’occasione per fare un salto di qualità. Dico sarebbe, perché... niente è come ieri, non c’è un giorno uguale all’altro, oggi è così - domani chissà, ecc. ecc. ecc. Succede però (almeno a me e penso anche a molti altri) che, se non si è mai del tutto pronti ad un qualsiasi cambiamento, ci si renda conto dei propri mutamenti, della propria evoluzione, della propria maturazione, proprio perché ci si comporta in modo anomalo, si è nervosi, suscettibili, insoddisfatti... E poi si vivono momenti del tutto inattesi, apparentemente insignificanti tanto sono semplici e... piccoli, della durata di un istante, che però sono l’indice di una nuova predisposizione, di nuova comprensione, di nuova apertura. In questi ultimi giorni, tra la fine di luglio e i primi di agosto, noto particolari del paesaggio a cui non avevo mai fatto caso: una casa su uno spuntone fra le colline; un’altra all’angolo di una strada, lì da chissà quanto tempo, visto l’aspetto un po’ trasandato; un alberello in un parco all’ombra di un altro molto più alto e più grande... Ne resto piacevolmente sorpreso, e benché non sappia dire cosa ciò significhi esattamente, mi dice che qualcosa in me si muove; e poi, ripensando a questi... nonnulla, mi rendo conto che effettivamente sono cambiato. |
Per favore... Grazie! Prego!!
Sapete cos’ho scoperto di recente? Una cosa... rivoluzionaria! L’uso (o non uso) di un popolo che vive ai cosiddetti antipodi; e non per aver colonizzato una terra che ha... scoperto (ma scoperto cosa?!): ci vive probabilmente da qualche millennio, anzi è fuori dubbio. Il vero dubbio è per quanto ancora ci vivrà sulla terra dove ha vissuto in pace e tranquillità fino a qualche secolo fa.
Scusate la digressione, ma è venuta da sé.
Sto parlando naturalmente del popolo aborigeno. Ciò che ho scoperto... meglio: che sono venuto a sapere è che nella loro lingua non esistono termini che significhino ‘per favore’ o ‘grazie’ e probabilmente neanche ‘prego’.
Pensate quante volte noi usiamo tali parole. C’è chi forse non le usa mai, ma non conosce nemmeno la gentilezza e la buona educazione. C’è chi invece addirittura si offende se ogni volta non gli si chiede ‘per favore’ seguito da un ‘grazie’ ben scandito. Succede anche che al posto di rispondere ‘prego’, spesso si dice ‘grazie a te’. Grazie cosa? Sei tu che hai fatto qualcosa per me! ‘Eh be’, grazie per avermi permesso di fare qualcosa per te’, potrebbe essere una plausibile (e disarmante) risposta a quella domanda.
A pensarci bene dovrebbe diventare molto naturale - almeno con alcune persone, gli amici, il/la coniuge o compagno/a che sia - chiedere dei favori, dal più semplice ‘mi passi il sale’ al più complesso ‘ho bisogno di una mano per il trasloco’, senza tante prefazioni, sviluppi e rindondanti epiloghi, esclusa la gentilezza: si è amici, ci si vuole bene e di solito (sono troppo ottimista?) ci si fa in quattro per quanto è possibile.
Il punto è che in questa parte di mondo viviamo con troppe sovrastrutture mentali, oltre a quelle tecnologiche, e fondamentalmente con la paura di restare soli, quando poi è proprio la nostra unicità auto-riconosciuta a metterci nella migliore attitudine per costruire rapporti solidi e duraturi.
E che ora nessuno osi ringraziarmi per quanto ho scritto qui sopra! ;-D
(11 agosto 2006)
Scusate la digressione, ma è venuta da sé.
Sto parlando naturalmente del popolo aborigeno. Ciò che ho scoperto... meglio: che sono venuto a sapere è che nella loro lingua non esistono termini che significhino ‘per favore’ o ‘grazie’ e probabilmente neanche ‘prego’.
Pensate quante volte noi usiamo tali parole. C’è chi forse non le usa mai, ma non conosce nemmeno la gentilezza e la buona educazione. C’è chi invece addirittura si offende se ogni volta non gli si chiede ‘per favore’ seguito da un ‘grazie’ ben scandito. Succede anche che al posto di rispondere ‘prego’, spesso si dice ‘grazie a te’. Grazie cosa? Sei tu che hai fatto qualcosa per me! ‘Eh be’, grazie per avermi permesso di fare qualcosa per te’, potrebbe essere una plausibile (e disarmante) risposta a quella domanda.
A pensarci bene dovrebbe diventare molto naturale - almeno con alcune persone, gli amici, il/la coniuge o compagno/a che sia - chiedere dei favori, dal più semplice ‘mi passi il sale’ al più complesso ‘ho bisogno di una mano per il trasloco’, senza tante prefazioni, sviluppi e rindondanti epiloghi, esclusa la gentilezza: si è amici, ci si vuole bene e di solito (sono troppo ottimista?) ci si fa in quattro per quanto è possibile.
Il punto è che in questa parte di mondo viviamo con troppe sovrastrutture mentali, oltre a quelle tecnologiche, e fondamentalmente con la paura di restare soli, quando poi è proprio la nostra unicità auto-riconosciuta a metterci nella migliore attitudine per costruire rapporti solidi e duraturi.
E che ora nessuno osi ringraziarmi per quanto ho scritto qui sopra! ;-D
(11 agosto 2006)
Autonomia o indipendenza?
(pubblicato su DM n. 160, dicembre 2006)
I termini autonomia e indipendenza sono molto usati nel mondo delle persone con disabilità e solitamente con significato analogo, per dire più o meno la stessa cosa. Questa similitudine però, ha fatto nascere in me la curiosità di capire quali siano i significati dei due termini e se si possano riscontrare delle differenze.
Il vocabolario riporta le seguenti definizioni:
- autonomia è “la capacità di governarsi da sé, sulla base di leggi proprie, liberamente sancite”;
- indipendenza è “la condizione di chi non dipende da altri”.
In effetti i significati sono molto simili, ma quanto riportato sopra mi dà conferma dei dubbi che da un po’ di tempo bussano alla porta del mio desiderio di comprendere la realtà e di cercare le parole adatte per rappresentarla adeguatamente.
Ciò che più risalta alla mia attenzione è che si può essere autonomi senza essere indipendenti, così come si può essere indipendenti senza essere autonomi. Ed ora cerco di spiegarmi meglio - senza avere la certezza di riuscirci, né la pretesa di esaurire un tema molto vasto e pieno di ulteriori implicanze.
Una persona è indipendente perché non ha bisogno di chiedere un intervento esterno per svolgere le sue attività, siano esse quotidiane o di natura particolare. Può alzarsi al mattino, vestirsi, far colazione, andare al lavoro, comprare ciò che gli serve, andare al cinema, al ristorante, a farsi una scampagnata, a trovare un amico, senza che altri debbano intervenire. Non è detto però che questa persona sia in grado di svolgere tutte le sue attività in maniera autonoma, perché, per esempio, c’è bisogno di qualcuno che la svegli alla mattina, che gli dica a che ora uscire per arrivare puntuale ad un appuntamento o solo perché non riuscendo a decidere che vestito mettersi, chieda agli altri se stia meglio una maglietta rossa o una camicia grigia su un paio di pantaloni verdi alla zuava.
La caratteristica essenziale di una persona autonoma, invece, è quella di sapere con chiarezza come gestire la propria vita, sia essa fatta di gesti quotidiani o di eventi periodici. Non è però affatto scontato che una persona con questa attitudine sia necessariamente una persona indipendente, perché può aver bisogno che qualcuno la vesta, che le faccia il bagno, che l’accompagni al lavoro, che la aiuti a spostare i piatti dal tavolo al lavello, che raddrizzi un quadro appeso in camera, che le asciughi una lacrima dal viso.
Non vorrei sembrare eccessivamente retorico o banalmente deduttivo, ma mi sento di affermare che una persona autonoma è quella che sa mettere a pieno frutto la propria capacità di essere responsabile. E dirò di più: la persona autonoma è talmente responsabile che non ammette eventuali ingerenze da parte di chi, vedendola bisognosa di aiuto, si permette di decidere al suo posto che inclinazione dare al cappello che ha scelto di mettere quel giorno o di abbottonargli il cappotto senza che gliel’abbia chiesto.
In generale le persone che cercano di rendersi autonome fanno una scelta di responsabilità, si rendono conto che per essere felici, o almeno per iniziare ad esserlo, è necessario imparare a fare le proprie scelte con consapevolezza; e ciò è possibile se parallelamente viene intrapreso un percorso di conoscenza personale volto a liberare tutte le proprie capacità e predisposizioni e a metterle a frutto. A volte ho l’impressione che le persone confondano l’autonomia e l’indipendenza, perché ritengono che l’essenziale sia poter fare quello che si vuole senza che nessuno possa interferire; ad onor del vero c’è chi, per la stessa voglia di libertà o presunta tale, non fa delle scelte di vita responsabili e se ne sta rintanato nel proprio status quo, nonostante possa essere poco piacevole. E se questo succede tra le persone senza problemi fisici o psichici, succede anche tra le persone con disabilità.
Autonomia e indipendenza sono certamente termini (e realtà) molto simili, ma considero maggiormente liberatorio e responsabile trovare la propria autonomia, psicologica ed emotiva, perché permette alle persone di dire “ci sono!”, nonostante le difficoltà che si possono incontrare (anche per garantire la propria autonomia); fino al punto che la propria dipendenza dall’aiuto di altre persone diventa una scelta di libertà, che permette di impiegare le proprie energie (e grande importanza hanno le energie fisiche in certe condizioni) per occuparsi delle cose che più stanno a cuore.
In definitiva divenendo autonomi, senza magari essere indipendenti, si compie un grande atto di rispetto verso se stessi, perché, se pur la vita è dura, e su questo credo non ci sia dubbio alcuno, è possibile vivere tutto con un po’ più di leggerezza e serenità.
I termini autonomia e indipendenza sono molto usati nel mondo delle persone con disabilità e solitamente con significato analogo, per dire più o meno la stessa cosa. Questa similitudine però, ha fatto nascere in me la curiosità di capire quali siano i significati dei due termini e se si possano riscontrare delle differenze.
Il vocabolario riporta le seguenti definizioni:
- autonomia è “la capacità di governarsi da sé, sulla base di leggi proprie, liberamente sancite”;
- indipendenza è “la condizione di chi non dipende da altri”.
In effetti i significati sono molto simili, ma quanto riportato sopra mi dà conferma dei dubbi che da un po’ di tempo bussano alla porta del mio desiderio di comprendere la realtà e di cercare le parole adatte per rappresentarla adeguatamente.
Ciò che più risalta alla mia attenzione è che si può essere autonomi senza essere indipendenti, così come si può essere indipendenti senza essere autonomi. Ed ora cerco di spiegarmi meglio - senza avere la certezza di riuscirci, né la pretesa di esaurire un tema molto vasto e pieno di ulteriori implicanze.
Una persona è indipendente perché non ha bisogno di chiedere un intervento esterno per svolgere le sue attività, siano esse quotidiane o di natura particolare. Può alzarsi al mattino, vestirsi, far colazione, andare al lavoro, comprare ciò che gli serve, andare al cinema, al ristorante, a farsi una scampagnata, a trovare un amico, senza che altri debbano intervenire. Non è detto però che questa persona sia in grado di svolgere tutte le sue attività in maniera autonoma, perché, per esempio, c’è bisogno di qualcuno che la svegli alla mattina, che gli dica a che ora uscire per arrivare puntuale ad un appuntamento o solo perché non riuscendo a decidere che vestito mettersi, chieda agli altri se stia meglio una maglietta rossa o una camicia grigia su un paio di pantaloni verdi alla zuava.
La caratteristica essenziale di una persona autonoma, invece, è quella di sapere con chiarezza come gestire la propria vita, sia essa fatta di gesti quotidiani o di eventi periodici. Non è però affatto scontato che una persona con questa attitudine sia necessariamente una persona indipendente, perché può aver bisogno che qualcuno la vesta, che le faccia il bagno, che l’accompagni al lavoro, che la aiuti a spostare i piatti dal tavolo al lavello, che raddrizzi un quadro appeso in camera, che le asciughi una lacrima dal viso.
Non vorrei sembrare eccessivamente retorico o banalmente deduttivo, ma mi sento di affermare che una persona autonoma è quella che sa mettere a pieno frutto la propria capacità di essere responsabile. E dirò di più: la persona autonoma è talmente responsabile che non ammette eventuali ingerenze da parte di chi, vedendola bisognosa di aiuto, si permette di decidere al suo posto che inclinazione dare al cappello che ha scelto di mettere quel giorno o di abbottonargli il cappotto senza che gliel’abbia chiesto.
In generale le persone che cercano di rendersi autonome fanno una scelta di responsabilità, si rendono conto che per essere felici, o almeno per iniziare ad esserlo, è necessario imparare a fare le proprie scelte con consapevolezza; e ciò è possibile se parallelamente viene intrapreso un percorso di conoscenza personale volto a liberare tutte le proprie capacità e predisposizioni e a metterle a frutto. A volte ho l’impressione che le persone confondano l’autonomia e l’indipendenza, perché ritengono che l’essenziale sia poter fare quello che si vuole senza che nessuno possa interferire; ad onor del vero c’è chi, per la stessa voglia di libertà o presunta tale, non fa delle scelte di vita responsabili e se ne sta rintanato nel proprio status quo, nonostante possa essere poco piacevole. E se questo succede tra le persone senza problemi fisici o psichici, succede anche tra le persone con disabilità.
Autonomia e indipendenza sono certamente termini (e realtà) molto simili, ma considero maggiormente liberatorio e responsabile trovare la propria autonomia, psicologica ed emotiva, perché permette alle persone di dire “ci sono!”, nonostante le difficoltà che si possono incontrare (anche per garantire la propria autonomia); fino al punto che la propria dipendenza dall’aiuto di altre persone diventa una scelta di libertà, che permette di impiegare le proprie energie (e grande importanza hanno le energie fisiche in certe condizioni) per occuparsi delle cose che più stanno a cuore.
In definitiva divenendo autonomi, senza magari essere indipendenti, si compie un grande atto di rispetto verso se stessi, perché, se pur la vita è dura, e su questo credo non ci sia dubbio alcuno, è possibile vivere tutto con un po’ più di leggerezza e serenità.
Senza titolo
Qualcuno dirà: “Che pigro il nostro amico! Son due mesi che non ci (ehem) allieta con i suoi scritti!”. Ebbene sì, cioé no... Di scritti ce ne sono stati in questi mesi, ma sono testi di canzoni, sapete che è quello mi viene (ehem!) meglio. E devo dire che è stato un inverno prodduttivo da questo punto di vista: addirittura sono stato ingaggiato da... eh eh, piacerebbe saperlo eh? Ma sapete, il segreto (ehem...) professionale...
Teniamo duro che la primavera arriva! Oggi c’è un bellissimo sole, caldo, anche se (sono uscito per vedere se c’era posta) l’aria è ancora un po’ freddina per i miei gusti.
Ridotto a parlare del tempo...
Del tempo (tic tac tic tac) invece ne ho parlato nella mia ultima trasmissione radiofonica, un filo conduttore in contraddizione di termini, in quanto, mettendo in evidenza le diverse strutture mentali dei vari poli del mondo e sottolineando il fatto che sono attualmente più propenso (...dubbio logico-analitico: si può dire?) a rispecchiare la mia concezione di tempo con quella (tagliaaa!) del sud del mondo... e quindi visto e previsto, rivisto e contemplato quanto suddetto, la trasmissione deve durare, o meglio, è preferibile che duri meno di cinquanta minuti, per evitare (e questa è una gentilezza nei miei confronti) che un collegamento di network mi lasci con una parola a me-, e dica il resto (-tà) la settimana dopo: mica bello restare lì con la consonante della successiva sillaba impostata sulle labbra per tutta una settimana!
Il titolo di ‘sto pezzo? B... manco le più semplici esclamazioni si possono fare ora, con tutti ‘sti personaggi televisivi che le fanno proprie, rischi di essere considerato un copione (chi lo recita poi? ah ah ah, scusate, mi è venuta così); e quindi dico, con molta originalità: non lo so. No... nel senso che un titolo da mettere non ce l’ho. Se però qualcuno ha suggerimenti saranno valutati dalla commissione di revisione composta dai miei neuroni impazziti... ehm... volevo dire... (ssst...sono un po’ permalosi...) veramente seri.
Ciao!
(7 marzo 2006)
Teniamo duro che la primavera arriva! Oggi c’è un bellissimo sole, caldo, anche se (sono uscito per vedere se c’era posta) l’aria è ancora un po’ freddina per i miei gusti.
Ridotto a parlare del tempo...
Del tempo (tic tac tic tac) invece ne ho parlato nella mia ultima trasmissione radiofonica, un filo conduttore in contraddizione di termini, in quanto, mettendo in evidenza le diverse strutture mentali dei vari poli del mondo e sottolineando il fatto che sono attualmente più propenso (...dubbio logico-analitico: si può dire?) a rispecchiare la mia concezione di tempo con quella (tagliaaa!) del sud del mondo... e quindi visto e previsto, rivisto e contemplato quanto suddetto, la trasmissione deve durare, o meglio, è preferibile che duri meno di cinquanta minuti, per evitare (e questa è una gentilezza nei miei confronti) che un collegamento di network mi lasci con una parola a me-, e dica il resto (-tà) la settimana dopo: mica bello restare lì con la consonante della successiva sillaba impostata sulle labbra per tutta una settimana!
Il titolo di ‘sto pezzo? B... manco le più semplici esclamazioni si possono fare ora, con tutti ‘sti personaggi televisivi che le fanno proprie, rischi di essere considerato un copione (chi lo recita poi? ah ah ah, scusate, mi è venuta così); e quindi dico, con molta originalità: non lo so. No... nel senso che un titolo da mettere non ce l’ho. Se però qualcuno ha suggerimenti saranno valutati dalla commissione di revisione composta dai miei neuroni impazziti... ehm... volevo dire... (ssst...sono un po’ permalosi...) veramente seri.
Ciao!
(7 marzo 2006)
E' domenica! (poe...nsiero)
E’ domenica mattina, fuori c’è il sole, ma presumo faccia freddo. Sembra di essere in un frigorifero a cielo aperto, visti i cumuli di neve ghiacchiata che ci sono ai lati delle strade, sui marciapiedi, nei prati. Però non è male... Ho passato inverni peggiori, durante i quali sentivo molto più freddo e mi sentivo bloccare dappertutto. Sarà che mi sono preso il portatile e sto nelle stanze più calde della casa, sarà che ormai ci sono abituato
e perciò mi sono rassegnato
a passare l'inverno un po' rintanato,a godermi il calduccio agognato
in un periodo tanto raffreddato.
Mi è venuta la "rimite",
in quelle forme acute
che non fanno mai fermate,
non che siano ben baciate
ma il vero e proprio limìte
è il non vederle finite.
Be', mo' basta! e allora!
Vogliamo finirla in quest'ora
ben lontana dall'aurora
- cos’è mai, un’avventura? -
che la fame si fa dura
mentre sto tra queste... mura...
O mio Dio, son proprio grave,
sono pronto per le fave,
devo dire qualche ave?
Forse è stata qualche trave
che ha incontrato la mia testa
nella notte di ‘sta festa...
in sincerità onesta
non ricordo, ero in siesta,
una notte ben passata,
ben davvero, rilassata;
ma l’attacco non finisce
la “rimite” mi aggredisce!
Orsù vattene, mo’ basta!
Vado a masticar la pasta!
(15 Gennaio 2006)
e perciò mi sono rassegnato
a passare l'inverno un po' rintanato,a godermi il calduccio agognato
in un periodo tanto raffreddato.
Mi è venuta la "rimite",
in quelle forme acute
che non fanno mai fermate,
non che siano ben baciate
ma il vero e proprio limìte
è il non vederle finite.
Be', mo' basta! e allora!
Vogliamo finirla in quest'ora
ben lontana dall'aurora
- cos’è mai, un’avventura? -
che la fame si fa dura
mentre sto tra queste... mura...
O mio Dio, son proprio grave,
sono pronto per le fave,
devo dire qualche ave?
Forse è stata qualche trave
che ha incontrato la mia testa
nella notte di ‘sta festa...
in sincerità onesta
non ricordo, ero in siesta,
una notte ben passata,
ben davvero, rilassata;
ma l’attacco non finisce
la “rimite” mi aggredisce!
Orsù vattene, mo’ basta!
Vado a masticar la pasta!
(15 Gennaio 2006)
Sabato mattina
E’ un po’ di tempo che non scrivo da queste parti, non perché non abbia idee da esporre e da raccontare, per fare questo devo trovare il momento adatto, che quello che ribolle nella mia pentola trovi il flusso giusto, o il mestolo giusto, per essere… (va be’, ormai siamo in tema) servito sul piatto di chi legge.
Sembra che il momento giusto sia questo, mentre scrivo questa sorta di introduzione diaristica del tipo “ho iniziato, ma non so dove e come finirò”… In effetti non so dove finirò, il punto è che nemmeno so cosa racconterò. Ma guarda! Tre rime baciate senza averci pensato (eh eh eh!).
Ma è necessario che scriva qualcosa che lasci il segno? Chissà, forse essendo sabato mattina, pieno di sole, il pensiero si rilassa e parlo del più e del meno, anzi! riesco a parlare del più e del meno! Che se dovessi seguire il significato vero del più e del meno… ma non mi viene proprio.
Mi piacerebbe saper scrivere dei racconti, iniziare da un pensiero e continuare a sviluppare, a raccontare… Anche raccontare a viva voce, a ruota libera, essere un racconta-storie. Ho conosciuto una racconta-storie, in Francia, anche se lei viene dall’Argentina, ho assistito ad un suo racconto. Non ricordo molto del racconto, anche perché era… raccontato (repetita iuvant!!) in francese, in primo luogo, e in spagnolo, qua e là. Mi ha affascinato il metodo utilizzato da questa canta-storie: lei non scrive mai i suoi racconti, non nascono sulla carta, ma direttamente a voce, e poi, ad ogni spettacolo, si arricchiscono della fantasia del momento, del sentire del momento… Magnifico!
Comunque è vero che, ora, mentre scrivo, a parte qualche ripensamento su parole digitate o errori di battitura, non sto creando qualcosa ad hoc; credo capiti a tutti, per esempio quando si scrive un diario, le idee e i pensieri vengono da sé, non c’è un copione da seguire, certo fanno traccia eventi, emozioni, riflessioni… Sarà ancora il gusto della narrazione scoperto a Palermo e dintorni che si fa strada, e chissà dove arriverà… (quando le certezze…). Ultimamente mi fido molto delle incertezze, mi sembra che per quanto…incerte, lascino la porta aperta alle possibili evoluzioni, e, sempre ultimamente (da qualche mese), trovo sempre gradite sorprese, del tutto inaspettate, e lo sono tanto di più perché (parafrasando una mia canzone) mi lasciano qualche istante… senza fiato…
(10 Dicembre 2005)
Sembra che il momento giusto sia questo, mentre scrivo questa sorta di introduzione diaristica del tipo “ho iniziato, ma non so dove e come finirò”… In effetti non so dove finirò, il punto è che nemmeno so cosa racconterò. Ma guarda! Tre rime baciate senza averci pensato (eh eh eh!).
Ma è necessario che scriva qualcosa che lasci il segno? Chissà, forse essendo sabato mattina, pieno di sole, il pensiero si rilassa e parlo del più e del meno, anzi! riesco a parlare del più e del meno! Che se dovessi seguire il significato vero del più e del meno… ma non mi viene proprio.
Mi piacerebbe saper scrivere dei racconti, iniziare da un pensiero e continuare a sviluppare, a raccontare… Anche raccontare a viva voce, a ruota libera, essere un racconta-storie. Ho conosciuto una racconta-storie, in Francia, anche se lei viene dall’Argentina, ho assistito ad un suo racconto. Non ricordo molto del racconto, anche perché era… raccontato (repetita iuvant!!) in francese, in primo luogo, e in spagnolo, qua e là. Mi ha affascinato il metodo utilizzato da questa canta-storie: lei non scrive mai i suoi racconti, non nascono sulla carta, ma direttamente a voce, e poi, ad ogni spettacolo, si arricchiscono della fantasia del momento, del sentire del momento… Magnifico!
Comunque è vero che, ora, mentre scrivo, a parte qualche ripensamento su parole digitate o errori di battitura, non sto creando qualcosa ad hoc; credo capiti a tutti, per esempio quando si scrive un diario, le idee e i pensieri vengono da sé, non c’è un copione da seguire, certo fanno traccia eventi, emozioni, riflessioni… Sarà ancora il gusto della narrazione scoperto a Palermo e dintorni che si fa strada, e chissà dove arriverà… (quando le certezze…). Ultimamente mi fido molto delle incertezze, mi sembra che per quanto…incerte, lascino la porta aperta alle possibili evoluzioni, e, sempre ultimamente (da qualche mese), trovo sempre gradite sorprese, del tutto inaspettate, e lo sono tanto di più perché (parafrasando una mia canzone) mi lasciano qualche istante… senza fiato…
(10 Dicembre 2005)
Bah!
Certo che siamo in un mondo di gente molto impegnata, non c'è che dire! Ognuno ha la propria vita e non c'è posto per altro, e se posto si pensa ci sia, viene... incastrato a forza in una mezz'ora nella quale farci stare viaggio, incontro e nuovo viaggio per ottemperare all'impegno successivo ad almeno... mezz'ora di strada, traffico permettendo; salvo poi rinviare questo nuovo impegno (per es. con me) di giorno in giorno, perché ci si rende conto (!!), nonostante la disponibilità data, di non riuscire a sostenerlo e a quel punto di non essere del tutto interessati alla cosa.
Bah! Io ho una vita del tutto particolare, non c'è dubbio, ma riesco, nonostante tutto, volente o nolente (e visto che è l’unica alternativa che mi si prospetta, con tendenza al volente), a godermela; mi rendo pure conto che la vita oggi sia complicata e per molti non c’è alternativa che correre. Ho invece l'impressione che ci sia molta più gente che nemmeno si rende conto di essere viva. Come si fa a pensare di costruire qualcosa di bello e originale insieme agli altri, perché da soli è praticamente impossibile, se molte, tante, ...troppe persone trovano a malapena il tempo di mangiarsi un panino, magari mentre salgono in auto, infilano la chiave nel cruscotto e si allacciano la cintura di sicurezza, e di dormire poi lo stretto necessario…, magari mentre guidano?! Vien voglia di lasciar perdere. E di andare a vivere in qualche sperduto paesino (preferibilmente a sud, perché a nord – già ci vivo – avrei troppo freddo), dove il tempo ha una connotazione di relatività, e altrettanto il bisogno di sentirsi così produttivi.
Per fortuna ci sono gli amici che sanno stupirmi per quanto siamo sulla stessa lunghezza d’onda (anche se nessuno certamente è perfetto); a volte si va a cercare chissà dove e poi, aperta la porta di casa, si trova la soluzione più semplice, quella vestita d’amicizia.
Per il resto… mi viene di nuovo da dire: bah!
( 10 Novembre 2005)
Bah! Io ho una vita del tutto particolare, non c'è dubbio, ma riesco, nonostante tutto, volente o nolente (e visto che è l’unica alternativa che mi si prospetta, con tendenza al volente), a godermela; mi rendo pure conto che la vita oggi sia complicata e per molti non c’è alternativa che correre. Ho invece l'impressione che ci sia molta più gente che nemmeno si rende conto di essere viva. Come si fa a pensare di costruire qualcosa di bello e originale insieme agli altri, perché da soli è praticamente impossibile, se molte, tante, ...troppe persone trovano a malapena il tempo di mangiarsi un panino, magari mentre salgono in auto, infilano la chiave nel cruscotto e si allacciano la cintura di sicurezza, e di dormire poi lo stretto necessario…, magari mentre guidano?! Vien voglia di lasciar perdere. E di andare a vivere in qualche sperduto paesino (preferibilmente a sud, perché a nord – già ci vivo – avrei troppo freddo), dove il tempo ha una connotazione di relatività, e altrettanto il bisogno di sentirsi così produttivi.
Per fortuna ci sono gli amici che sanno stupirmi per quanto siamo sulla stessa lunghezza d’onda (anche se nessuno certamente è perfetto); a volte si va a cercare chissà dove e poi, aperta la porta di casa, si trova la soluzione più semplice, quella vestita d’amicizia.
Per il resto… mi viene di nuovo da dire: bah!
( 10 Novembre 2005)
Il gusto per la narrazione
Recentemente sono stato a Palermo, per un fine settimana. Da tempo non vedevo un’amica e nel giro di ventiquattr’ore sono riuscito ad organizzarmi e partire con mio fratello.
Oltre ai preparativi necessari, il viaggio è stato, come dire, anticipato da alcuni piccoli eventi che mi hanno introdotto nel clima siciliano.
Il primo di questi è stato una telefonata a Palermo per una questione logistica: il mio interlocutore mi ha tenuto all’apparecchio per quasi cinque minuti, circostanziando e ben motivando il perché non era possibile soddisfare le mie richieste.
Il secondo evento è stata una scena di un nuovo episodio del commissario Montalbano, visto proprio il giorno prima di partire. In tale scena il commissario si era portato sul luogo di un incidente e vedendo un contadino nel campo adiacente gli si avvicina per chiedere se avesse visto qualcosa; l’interpellato, dopo le prime parole, si ferma, talìa u sbirru (così si scrive?) e gli dice: “Venga con me”; lo porta nel punto esatto in cui si trovava al momento dell’incidente e soltanto qui gli racconta per filo e per segno quello che ha visto.
Scene del genere si sono poi ripetute durante il viaggio, scambi di esperienze mediche e chirurgiche, racconti di difficoltà con l’assistenza in aeroporto. Mi sono così reso conto che una delle caratteristiche dei siciliani è la passione per la narrazione degli eventi, dei propri vissuti, proprio come se fossero dei racconti, per cui ogni particolare è ritenuto importante perché chi ascolta possa calarsi nella situazione e la comprenda dall’interno.
Devo dire che il primo contatto con questa caratteristica non mi ha entusiasmato, al nord non si vede l’ora che chi parla troppo, per dirla con una locuzione delle mie parti, ci molli. In seguito la cosa ha iniziato ad affascinarmi e poi a divertirmi. E’ proprio come vedere un film o una commedia, sei lì seduto a guardare e ad ascoltare mentre tutto si svolge, sei parte della scena e le emozioni sono reali.
Ci sono stati anche episodi divertenti per un’altra caratteristica siciliana che è la spontaneità. In un ristorante, in una località molto bella a pochi chilometri da Palermo, dopo averci portato i menu solo qualche minuto prima, il cameriere si presenta e ci dice: “Sapete già cosa ordinare o ho il tempo per farmi due spaghetti?”.
Mi è stato raccontato, invece, dell’incontro di una signora norditalica con un controllore del servizio trasporti pubblico: non trovando la tabella con gli orari del bus (…in effetti non c’era), si rivolge all’uomo in uniforme e chiede a che ora sarebbe passata la corsa successiva. La risposta? “Eh, signora, quando passa, passa!”.
La narrazione… La mia amica mi ha fatto notare che è molto utile, per esempio nei momenti di attesa (magari del tram), il tempo scorre meglio, non ci si annoia; può addirittura capitare che si colga lo spunto per un articolo o per una nuova canzone.
A proposito di canzoni… no… va be’… un’altra volta. Contagioso il gusto per la narrazione…
Mi sono trovato davvero bene in Sicilia, benché ci siano problemi logistici e di carattere sociale (e uno ci è toccato viverlo, ma d’altronde dov’è che tutto fila sempre liscio?).
Ho conosciuto nuove persone che mi hanno accolto con calore, gente concreta, diretta, che mi ha invitato a tornare, fermandomi qualche giorno di più. Addirittura persone che non ho mai incontrato né visto che tramite l’amica comune mi suggeriscono di fare a Catania il prossimo viaggio nell’isola!
Un altro viaggio in Sicilia lo farò di sicuro, e forse più d’uno, sono appena rientrato, ma vorrei già tornarci. E’ una terra che rapisce i sensi, fatta di gente di cuore, dove si mangiano delle cose buonissime (!!)… Non si può non tornare.
(autunno 2005)
Oltre ai preparativi necessari, il viaggio è stato, come dire, anticipato da alcuni piccoli eventi che mi hanno introdotto nel clima siciliano.
Il primo di questi è stato una telefonata a Palermo per una questione logistica: il mio interlocutore mi ha tenuto all’apparecchio per quasi cinque minuti, circostanziando e ben motivando il perché non era possibile soddisfare le mie richieste.
Il secondo evento è stata una scena di un nuovo episodio del commissario Montalbano, visto proprio il giorno prima di partire. In tale scena il commissario si era portato sul luogo di un incidente e vedendo un contadino nel campo adiacente gli si avvicina per chiedere se avesse visto qualcosa; l’interpellato, dopo le prime parole, si ferma, talìa u sbirru (così si scrive?) e gli dice: “Venga con me”; lo porta nel punto esatto in cui si trovava al momento dell’incidente e soltanto qui gli racconta per filo e per segno quello che ha visto.
Scene del genere si sono poi ripetute durante il viaggio, scambi di esperienze mediche e chirurgiche, racconti di difficoltà con l’assistenza in aeroporto. Mi sono così reso conto che una delle caratteristiche dei siciliani è la passione per la narrazione degli eventi, dei propri vissuti, proprio come se fossero dei racconti, per cui ogni particolare è ritenuto importante perché chi ascolta possa calarsi nella situazione e la comprenda dall’interno.
Devo dire che il primo contatto con questa caratteristica non mi ha entusiasmato, al nord non si vede l’ora che chi parla troppo, per dirla con una locuzione delle mie parti, ci molli. In seguito la cosa ha iniziato ad affascinarmi e poi a divertirmi. E’ proprio come vedere un film o una commedia, sei lì seduto a guardare e ad ascoltare mentre tutto si svolge, sei parte della scena e le emozioni sono reali.
Ci sono stati anche episodi divertenti per un’altra caratteristica siciliana che è la spontaneità. In un ristorante, in una località molto bella a pochi chilometri da Palermo, dopo averci portato i menu solo qualche minuto prima, il cameriere si presenta e ci dice: “Sapete già cosa ordinare o ho il tempo per farmi due spaghetti?”.
Mi è stato raccontato, invece, dell’incontro di una signora norditalica con un controllore del servizio trasporti pubblico: non trovando la tabella con gli orari del bus (…in effetti non c’era), si rivolge all’uomo in uniforme e chiede a che ora sarebbe passata la corsa successiva. La risposta? “Eh, signora, quando passa, passa!”.
La narrazione… La mia amica mi ha fatto notare che è molto utile, per esempio nei momenti di attesa (magari del tram), il tempo scorre meglio, non ci si annoia; può addirittura capitare che si colga lo spunto per un articolo o per una nuova canzone.
A proposito di canzoni… no… va be’… un’altra volta. Contagioso il gusto per la narrazione…
Mi sono trovato davvero bene in Sicilia, benché ci siano problemi logistici e di carattere sociale (e uno ci è toccato viverlo, ma d’altronde dov’è che tutto fila sempre liscio?).
Ho conosciuto nuove persone che mi hanno accolto con calore, gente concreta, diretta, che mi ha invitato a tornare, fermandomi qualche giorno di più. Addirittura persone che non ho mai incontrato né visto che tramite l’amica comune mi suggeriscono di fare a Catania il prossimo viaggio nell’isola!
Un altro viaggio in Sicilia lo farò di sicuro, e forse più d’uno, sono appena rientrato, ma vorrei già tornarci. E’ una terra che rapisce i sensi, fatta di gente di cuore, dove si mangiano delle cose buonissime (!!)… Non si può non tornare.
(autunno 2005)
A 40 anni
Qualcuno mi ha detto... qualcuno che stimo molto... che i quarant'anni segnano un cambio di prospettiva di fronte alla vita e al susseguirsi degli eventi e delle emozioni ad essi collegati, e quindi delle scelte che si fanno.
In questi giorni, in effetti, mi accorgo di affrontare la quotidianità con uno spirito diverso, più libero, più disposto a rischiare, a cercare di concretizzare le idee che mi vengono senza preoccuparmi di non riuscire a realizzarle, convinto che se devono andare in porto si compiranno; se non si compiranno non sarà perché non ci ho provato, cosa che mi dà una certa pace, e in secondo luogo è probabile che non mi servano a progredire.
Noto anche una nuova pazienza in me, proprio nella realizzazione dei progetti; di solito non vedo l’ora di arrivare al loro compimento, quasi a volermi liberare di un peso. Ora vivo con più gusto il prendere tempo, fare delle pause, lasciare che le carte si accumulino sulla scrivania. Devo dire che questa dimensione mi lascia un po’… disorientato, ma mi affascina per la calma che mi ispira.
Mentre scrivo queste cose, ripenso ai momenti duri di quest'anno, ai tanti perché senza risposta, al senso di ingiustizia provato, chiedendomi se sarò in grado di sostenere i periodi bui che potrebbero presentarsi in futuro, che anzi ci saranno di sicuro, tenendo in considerazione però la consapevolezza di oggi. Se così fosse, saprei trovare la serenità, e con essa la forza, per guardare avanti stando ben ancorato al momento presente. E se così non sarà... be', vedrò il da farsi al… momento opportuno.
( 20 Settembre 2005)
In questi giorni, in effetti, mi accorgo di affrontare la quotidianità con uno spirito diverso, più libero, più disposto a rischiare, a cercare di concretizzare le idee che mi vengono senza preoccuparmi di non riuscire a realizzarle, convinto che se devono andare in porto si compiranno; se non si compiranno non sarà perché non ci ho provato, cosa che mi dà una certa pace, e in secondo luogo è probabile che non mi servano a progredire.
Noto anche una nuova pazienza in me, proprio nella realizzazione dei progetti; di solito non vedo l’ora di arrivare al loro compimento, quasi a volermi liberare di un peso. Ora vivo con più gusto il prendere tempo, fare delle pause, lasciare che le carte si accumulino sulla scrivania. Devo dire che questa dimensione mi lascia un po’… disorientato, ma mi affascina per la calma che mi ispira.
Mentre scrivo queste cose, ripenso ai momenti duri di quest'anno, ai tanti perché senza risposta, al senso di ingiustizia provato, chiedendomi se sarò in grado di sostenere i periodi bui che potrebbero presentarsi in futuro, che anzi ci saranno di sicuro, tenendo in considerazione però la consapevolezza di oggi. Se così fosse, saprei trovare la serenità, e con essa la forza, per guardare avanti stando ben ancorato al momento presente. E se così non sarà... be', vedrò il da farsi al… momento opportuno.
( 20 Settembre 2005)
"DEFINIRE SIGNIFICA LIMITARE"
pubblicato su DM 148 - aprile 2003
(titolo di un album di Riccardo Zappa)
Non è forse ora di finirla di considerare disabili le persone che si muovono su carrozzella? E di dargli la precedenza alle casse del supermercato? Non siamo in grado di aspettare qualche minuto o un quarto d’ora? Il più delle volte evito di andare alle casse prioritarie proprio per questo motivo. Il bello è che nonostante il mio rifiuto di passare avanti, le persone insistono e non c’è alternativa, per evitare di mandarle a quel paese, che passare avanti e ringraziare della cortesia. Le casse prioritarie dovrebbero solo garantire un passaggio più largo delle altre.
Stesso discorso quando c’è coda al bagno, o quando la gente si scansa nei corridoi. La cosa più divertente è quando accidentalmente urti le caviglie di chi ti sta davanti, questi si girano e ti chiedono scusa…
Basta con gli intercalari del tipo: “oh, povero figliolo sfortunato…”; oppure (con la faccia affranta): “Che sfiga!” Che sfiga un corno! Io sono Annibale e sono quello che sono, mi piace cantare, mi piace scrivere, so aspettare, so scherzare, so ridere, so godermela, in definitiva so vivere!
A questo proposito mi ha dato gioia osservare, durante un concerto, due ragazze con sindrome di down: si divertivano un sacco, ridevano e gridavano, e si muovevano a tempo.
Mi ha pure colpito, e in seguito ho apprezzato, la frase di una persona scomparsa qualche tempo fa: (ha proprio usato questi termini) “Anche fra i disabili ci sono gli stronzi”. Eh già! Potrei essere uno di quelli, almeno per qualcuno.
Purtroppo diventiamo ciò che ci caratterizza. Per cui si è considerati, e soprattutto poi ci si considera, miodistrofici, disabili, ciechi, zoppi: ma io non sono miodistrofico, non sono la mia malattia, se così vogliamo chiamarla, io sono io, al di là della distrofia.
Questo non significa negare la realtà delle cose. Significa invece rendersi conto che ci sono molte potenzialità da mettere in gioco, da realizzare, e certo situazioni da cambiare e da migliorare, ma non aiuterà considerarci ed essere considerati delle persone speciali, perché questo ci fa perdere molte opportunità.
Una cara amica una volta mi ha detto: “Non penserai di essere un handicappato?” L’avrei baciata sulla bocca, ma c’era lì il fidanzato, per cui…
Allargando il discorso si possono fare altri esempi al riguardo, parlando di omosessuali, che di fatto sono persone a cui piacciono persone dello stesso sesso, di tossico-dipendenti, persone che fanno uso di droga, di ciechi, che sono persone i cui occhi fisici non funzionano; e così via, fino ad arrivare agli psicologici, agli avvocati, ai cantanti, ai direttori, agli operai, …tutte persone che fanno un lavoro, ma non sono il loro lavoro.
Chissà perché si è arrivati a questo…
Mi sorge il dubbio che tutto sia nato per risparmiare parole, e quindi tempo, e magari denaro, abituati come siamo, probabilmente dall’inizio dei tempi, a ottenere il più possibile con il minor sforzo possibile.
Di conseguenza è diventato più facile etichettare che considerare ogni persona per ciò che realmente è.
(titolo di un album di Riccardo Zappa)
Non è forse ora di finirla di considerare disabili le persone che si muovono su carrozzella? E di dargli la precedenza alle casse del supermercato? Non siamo in grado di aspettare qualche minuto o un quarto d’ora? Il più delle volte evito di andare alle casse prioritarie proprio per questo motivo. Il bello è che nonostante il mio rifiuto di passare avanti, le persone insistono e non c’è alternativa, per evitare di mandarle a quel paese, che passare avanti e ringraziare della cortesia. Le casse prioritarie dovrebbero solo garantire un passaggio più largo delle altre.
Stesso discorso quando c’è coda al bagno, o quando la gente si scansa nei corridoi. La cosa più divertente è quando accidentalmente urti le caviglie di chi ti sta davanti, questi si girano e ti chiedono scusa…
Basta con gli intercalari del tipo: “oh, povero figliolo sfortunato…”; oppure (con la faccia affranta): “Che sfiga!” Che sfiga un corno! Io sono Annibale e sono quello che sono, mi piace cantare, mi piace scrivere, so aspettare, so scherzare, so ridere, so godermela, in definitiva so vivere!
A questo proposito mi ha dato gioia osservare, durante un concerto, due ragazze con sindrome di down: si divertivano un sacco, ridevano e gridavano, e si muovevano a tempo.
Mi ha pure colpito, e in seguito ho apprezzato, la frase di una persona scomparsa qualche tempo fa: (ha proprio usato questi termini) “Anche fra i disabili ci sono gli stronzi”. Eh già! Potrei essere uno di quelli, almeno per qualcuno.
Purtroppo diventiamo ciò che ci caratterizza. Per cui si è considerati, e soprattutto poi ci si considera, miodistrofici, disabili, ciechi, zoppi: ma io non sono miodistrofico, non sono la mia malattia, se così vogliamo chiamarla, io sono io, al di là della distrofia.
Questo non significa negare la realtà delle cose. Significa invece rendersi conto che ci sono molte potenzialità da mettere in gioco, da realizzare, e certo situazioni da cambiare e da migliorare, ma non aiuterà considerarci ed essere considerati delle persone speciali, perché questo ci fa perdere molte opportunità.
Una cara amica una volta mi ha detto: “Non penserai di essere un handicappato?” L’avrei baciata sulla bocca, ma c’era lì il fidanzato, per cui…
Allargando il discorso si possono fare altri esempi al riguardo, parlando di omosessuali, che di fatto sono persone a cui piacciono persone dello stesso sesso, di tossico-dipendenti, persone che fanno uso di droga, di ciechi, che sono persone i cui occhi fisici non funzionano; e così via, fino ad arrivare agli psicologici, agli avvocati, ai cantanti, ai direttori, agli operai, …tutte persone che fanno un lavoro, ma non sono il loro lavoro.
Chissà perché si è arrivati a questo…
Mi sorge il dubbio che tutto sia nato per risparmiare parole, e quindi tempo, e magari denaro, abituati come siamo, probabilmente dall’inizio dei tempi, a ottenere il più possibile con il minor sforzo possibile.
Di conseguenza è diventato più facile etichettare che considerare ogni persona per ciò che realmente è.
Scrivere?
Difficile scrivere ciò che passa per la mente, difficile soprattutto quando sembra non passi niente. Facile dire “mettiti lì e scrivi”, come diceva il protagonista di “Scoprendo Forrester”, film con Sean Connery: nel momento in cui si sedeva davanti alla macchina da scrivere, iniziava a battere sui tasti con non chalance.
Capisco che sia un film, ma neppure penso sia impossibile, basta iniziare con qualunque cosa, mettere per iscritto il primo pensiero e poi seguire il flusso. Un po’ come sto facendo in questo momento, benché non sappia dove andrò a finire, potrei anche arrivare alla fine della frase e non sapere più come continuare. Be’, in tal caso vorrà dire che non è il momento di scrivere alcunché di interessante, né per me, né tanto meno per altri. E così sta capitando… quando iniziano le pause… e devi pensare a cosa scrivere… Bah! Doveva andare così. |
martedì 28 febbraio 2012
Chi ha tempo non aspetti tempo
(nemmeno per esprimere ciò che si prova nel momento presente perché non si sa quali siano le possibili evoluzioni successive: leggere per credere)
Piangerei, piangerei in continuazione, questo vorrei fare per l’ansia che vivo, il peso che sento sul petto, questo non saper che fare per evitare di sentirmi inutile e, soprattutto, di perdere il tempo che già perdo abbastanza.
Il tempo… già!
I miei tempi sono diversi dalla media odierna, a volte mi stupisco di quanto mi ci voglia per fare una cosa; per altro mi rendo conto che per fare altre azioni mi ci vogliono effettivamente pochi secondi.
Andando per ordine, il tempo, per esempio, che mi ci vuole per prepararmi* il pranzo è di circa un’ora. Per questo a volte cerco di cavarmela in pochi minuti aprendo una scatoletta e riscaldando la verdura che ho avanzato, o precotto, il giorno prima.
Nella stagione fredda per vestirmi la mattina mi ci vuole un quarto d’ora abbondante, forse anche venti minuti, durante la stagione calda ne bastano dieci. Qui non c’è alternativa di ridurre i tempi, a meno che vada a dormire senza togliere vestiti e scarpe e allora basta lo spazio di un “hop!” per essere pronto.
Per dormire invece, per riposare bene, ma bene bene bene, mi ci vogliono dieci ore, ed è una goduria potersi svegliare a sonno compiuto. Ancora di più se, come capita in questi giorni di metà novembre, sogno una bella donna che si avvicina a me e si lascia accarezzare… Dopodiché mi sveglio e non so mai come va a finire.
Be’, sì, il tempo per salire e scendere dall’auto è decisamente cresciuto: estrarre il telecomando dalla borsa, accenderlo, aprire i portelloni (ma che macchina è?), fare uscire la pedana, abbassarla fino a terra, salirci, farla salire e poi rientrare dopo essere entrato nell’abitacolo (oh, guarda! certo che la tecnologia oggi…), chiudere i portelloni, portarmi fino al sedile di guida sul quale devo trasferirmi, girarlo, abbassarlo, avvicinarlo al volante, mettici pure il supporto laterale per la gamba destra…mi ci vogliono…tre minuti buoni. (No, non è la versione economica di uno shuttle, è un combi!). I primi tempi, non essendo abituato, arrivavo agli appuntamenti un quarto d’ora dopo. Adesso arrivo (quasi sempre) in orario, tenendo conto che ci vuole lo stesso tempo per scendere dal mezzo, per cui allontana il sedile dal volante, alzalo, giralo, etc etc etc.
Mah! La vera mia perdita di tempo è pensare, in modo quasi costante, a cosa dovrò fare dopo. Forse il tempo è tutta un’immagine mentale. Sì, spesso ho l’impressione di rincorrere il tempo più che sfruttarlo: mi succede che, preso dall’ansia di concludere i “compiti”, salti dei passaggi, con la conseguenza che poi mi ritrovo letteralmente con il fiato corto. Prima o poi mi succederà che dimenticherò di accendere il motore dell’auto prima di partire.
Evito questo, e vivo più serenamente, quando mi rendo conto che il tempo che mi serve è il mio tempo caratteristico, solo mio, come lo sono le impronte dentarie o la voce appena sveglio; e ciò mi permette di non inseguire il tempo, ma di usarlo, soprattutto per esprimere le mie potenzialità e passioni che ora come non mai hanno bisogno di concretizzarsi.
Ed ora: via! Più veloce della luce verso la cucina, altrimenti oggi non riesco a rifarmi le unghie prima di trascrivere il risultato della ricerca che mi permetterà di presentare un pezzo di stoffa con cui avvolgere le briciole di torta avanzata da quello scansafatiche che pur di non perdere tempo evita (saggiamente) di aspettarlo!
(10 gennaio 2005)
Piangerei, piangerei in continuazione, questo vorrei fare per l’ansia che vivo, il peso che sento sul petto, questo non saper che fare per evitare di sentirmi inutile e, soprattutto, di perdere il tempo che già perdo abbastanza.
Il tempo… già!
I miei tempi sono diversi dalla media odierna, a volte mi stupisco di quanto mi ci voglia per fare una cosa; per altro mi rendo conto che per fare altre azioni mi ci vogliono effettivamente pochi secondi.
Andando per ordine, il tempo, per esempio, che mi ci vuole per prepararmi* il pranzo è di circa un’ora. Per questo a volte cerco di cavarmela in pochi minuti aprendo una scatoletta e riscaldando la verdura che ho avanzato, o precotto, il giorno prima.
Nella stagione fredda per vestirmi la mattina mi ci vuole un quarto d’ora abbondante, forse anche venti minuti, durante la stagione calda ne bastano dieci. Qui non c’è alternativa di ridurre i tempi, a meno che vada a dormire senza togliere vestiti e scarpe e allora basta lo spazio di un “hop!” per essere pronto.
Per dormire invece, per riposare bene, ma bene bene bene, mi ci vogliono dieci ore, ed è una goduria potersi svegliare a sonno compiuto. Ancora di più se, come capita in questi giorni di metà novembre, sogno una bella donna che si avvicina a me e si lascia accarezzare… Dopodiché mi sveglio e non so mai come va a finire.
Be’, sì, il tempo per salire e scendere dall’auto è decisamente cresciuto: estrarre il telecomando dalla borsa, accenderlo, aprire i portelloni (ma che macchina è?), fare uscire la pedana, abbassarla fino a terra, salirci, farla salire e poi rientrare dopo essere entrato nell’abitacolo (oh, guarda! certo che la tecnologia oggi…), chiudere i portelloni, portarmi fino al sedile di guida sul quale devo trasferirmi, girarlo, abbassarlo, avvicinarlo al volante, mettici pure il supporto laterale per la gamba destra…mi ci vogliono…tre minuti buoni. (No, non è la versione economica di uno shuttle, è un combi!). I primi tempi, non essendo abituato, arrivavo agli appuntamenti un quarto d’ora dopo. Adesso arrivo (quasi sempre) in orario, tenendo conto che ci vuole lo stesso tempo per scendere dal mezzo, per cui allontana il sedile dal volante, alzalo, giralo, etc etc etc.
Mah! La vera mia perdita di tempo è pensare, in modo quasi costante, a cosa dovrò fare dopo. Forse il tempo è tutta un’immagine mentale. Sì, spesso ho l’impressione di rincorrere il tempo più che sfruttarlo: mi succede che, preso dall’ansia di concludere i “compiti”, salti dei passaggi, con la conseguenza che poi mi ritrovo letteralmente con il fiato corto. Prima o poi mi succederà che dimenticherò di accendere il motore dell’auto prima di partire.
Evito questo, e vivo più serenamente, quando mi rendo conto che il tempo che mi serve è il mio tempo caratteristico, solo mio, come lo sono le impronte dentarie o la voce appena sveglio; e ciò mi permette di non inseguire il tempo, ma di usarlo, soprattutto per esprimere le mie potenzialità e passioni che ora come non mai hanno bisogno di concretizzarsi.
Ed ora: via! Più veloce della luce verso la cucina, altrimenti oggi non riesco a rifarmi le unghie prima di trascrivere il risultato della ricerca che mi permetterà di presentare un pezzo di stoffa con cui avvolgere le briciole di torta avanzata da quello scansafatiche che pur di non perdere tempo evita (saggiamente) di aspettarlo!
(10 gennaio 2005)
La voce è lo specchio dell'anima
Dico così perché tanto più ho lavorato per liberare la mia voce da ogni tipo di blocco, tanto più mi sono liberato di inconsapevolezze di vario genere, di paure…sì soprattutto di paure.
Nello stesso tempo, la voce mi ha fatto conoscere mie potenzialità che ancora non conoscevo, compresa la forza d’animo. In una parola, mi ha condotto al mio centro. La voce è anche specchio della situazione presente della persona: in effetti tutte le emozioni, gli stati d’animo, fisico e mentale, si riflettono sulla voce, che assume tonalità e risonanze diverse. D’altro canto è vero anche l’opposto, e cioè che l’uso della voce liberata da tensioni di varia origine e arricchita di tutta la sua gamma di frequenze, va a influire sullo stato generale della persona, sia a livello morale, sia a livello fisico. E’ un vero proprio canale, uno strumento privilegiato con cui far emergere, da un lato, la zavorra che impedisce di vivere pienamente, dall’altro, la vitalità di cui ogni persona è capace. La voce è realmente educativa. |
Plagio inconsapevole
Potete immaginare quale delusione sia scoprire che ciò che si è fatto o detto, convinti di aver creato qualcosa di nuovo, in realtà è già stato fatto, detto e pensato da qualcun’altro? Se non ci riuscite ve lo racconto io. Qualche mese fa ero praticamente sicuro di aver dato vita ad una frase che racchiudeva in sé un mondo di esperienza e un nuovo modo di pensare; ne ho pure sviluppato il significato in un breve scritto. Poi ho scoperto che molto probabilmente è la frase di un grande filosofo.
L’aver scoperto di essere stato anticipato ha portato con sé una momentanea delusione. Non ha certo cambiato la convinzione sulla verità che la frase porta con sé, soprattutto perché descrive ciò che vivo realmente ogni giorno.
Mi sono comunque sentito nei panni di quegli autori che dopo aver composto per esempio una melodia, scoprono di avere scritto un brano, che già esiste. Il fatto è che se ne accorgono spesso a pubblicazione avvenuta e questo naturalmente complica le cose, perché chi si sente defraudato del proprio diritto d’autore, ricorre al giudice. Vero è che, di fronte ad un’eventuale ammissione di colpa, al giudice si ricorre comunque per chiedere il risarcimento.
Si può però comprendere l’avverarsi di queste situazioni, escluso il dolo, dato che in qualche millennio di storia qualcuno avrà già coniato frasi famose, qualcuno, fra le centinaia di migliaia di musicisti, avrà già utilizzato una certa sequenza di note.
Mi chiedo, tuttavia, se ci sia una via d’uscita al problema. Forse, dato che prevenire è meglio che curare (a proposito di frasi famose), potrebbe essere utile confrontare le proprie opere con persone di cui ci si fida, che sappiano dire schiettamente come stanno le cose e, nel caso, convincano l’interessato ad agire di conseguenza. Il limite di tale soluzione è dato dal grado di conoscenza della materia delle persone interpellate.
E se invece fosse abolito il diritto di autore? Questo, più che risolvere, eviterebbe il problema, e aprirebbe la strada ai furboni e ai finti tonti, che già abbondano.
Qualcuno ha un’altra idea? Evitare, per esempio, di sentirsi dei pensatori o dei compositori?
Chissà, forse non c’è una reale soluzione. Ciò che naturalmente fa la differenza è la capacità di ammettere, prima di tutto a se stessi, di aver “inventato” qualcosa di cui non si è l’autore primo, e saper riconoscere, dall’altro lato, di essere un bravo interprete; peraltro, se questo riguarda le cose essenziali della vita, non è certo male.
L’aver scoperto di essere stato anticipato ha portato con sé una momentanea delusione. Non ha certo cambiato la convinzione sulla verità che la frase porta con sé, soprattutto perché descrive ciò che vivo realmente ogni giorno.
Mi sono comunque sentito nei panni di quegli autori che dopo aver composto per esempio una melodia, scoprono di avere scritto un brano, che già esiste. Il fatto è che se ne accorgono spesso a pubblicazione avvenuta e questo naturalmente complica le cose, perché chi si sente defraudato del proprio diritto d’autore, ricorre al giudice. Vero è che, di fronte ad un’eventuale ammissione di colpa, al giudice si ricorre comunque per chiedere il risarcimento.
Si può però comprendere l’avverarsi di queste situazioni, escluso il dolo, dato che in qualche millennio di storia qualcuno avrà già coniato frasi famose, qualcuno, fra le centinaia di migliaia di musicisti, avrà già utilizzato una certa sequenza di note.
Mi chiedo, tuttavia, se ci sia una via d’uscita al problema. Forse, dato che prevenire è meglio che curare (a proposito di frasi famose), potrebbe essere utile confrontare le proprie opere con persone di cui ci si fida, che sappiano dire schiettamente come stanno le cose e, nel caso, convincano l’interessato ad agire di conseguenza. Il limite di tale soluzione è dato dal grado di conoscenza della materia delle persone interpellate.
E se invece fosse abolito il diritto di autore? Questo, più che risolvere, eviterebbe il problema, e aprirebbe la strada ai furboni e ai finti tonti, che già abbondano.
Qualcuno ha un’altra idea? Evitare, per esempio, di sentirsi dei pensatori o dei compositori?
Chissà, forse non c’è una reale soluzione. Ciò che naturalmente fa la differenza è la capacità di ammettere, prima di tutto a se stessi, di aver “inventato” qualcosa di cui non si è l’autore primo, e saper riconoscere, dall’altro lato, di essere un bravo interprete; peraltro, se questo riguarda le cose essenziali della vita, non è certo male.
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