mercoledì 29 febbraio 2012

Il gioco della vita


Un giorno dell'autunno 2006.
Ripenso a tutte le volte in cui, mentre sono in giro con la mia carrozza, incontro i bambini, soprattutto i più piccoli; succede in qualche parco, su una pista ciclabile, in riva al lago, sempre in compagnia di mamma o papà o a poca distanza da loro. E’ quasi matematico che i bambini, quando mi vedono arrivare, allunghino subito il loro ditino a indicarmi, alzando uno sguardo interrogativo verso il genitore o nonno che sia; i più grandi fanno una vera e propria domanda: perché va in giro così? Oppure: come fa a andare da sola? I genitori più intelligenti rispondono alle domande legittime dei loro figli con chiarezza e disponibilità, mi salutano e invitano i piccoli a fare altrettanto; alcuni, pochissimi (santi uomini e sante donne… anzi, santi papà e sante mamme), incoraggiano i bambini a rivolgere a me le loro domande. 
Poi ci sono quelli, invece, che fanno finta di non vedere e di non sentire, e tirano i figli per un braccio perché non indugino nel disagevole incontro, senza dire niente, se non forse ‘vai avanti’ o ‘dai vieni’; i bambini salutano, mentre sembra proprio che gli adulti non sappiano che pesci pigliare… oppure pensano in effetti di avere a che fare proprio con dei pesci… e se lo fossimo davvero?
A parte questa riflessione introduttiva sulla capacità (o incapacità… mh… disabilità?) delle persone di dare uno sguardo omnicomprensivo della realtà senza timori e… imparano ai figli a fare lo stesso, volevo concentrare il mio pensiero sui bambini e sul loro modo di concepire la vita, senza la pretesa di fare il pedagogo o il sociologo infantile, di quelli per intenderci che vogliono dire qualcosa su qualcunaltro che vive un’esperienza… speciale, con la presunzione di conoscere il caso in tutte le sue variabilità e quindi di sapere cosa è necessario fare e quali atteggiamenti è utile assumere (dove l’ho già sentita questa…?) perché la persona viva fino in fondo la sua quotidianità. Naturalmente ci sono anche quelli che hanno la sensibilità necessaria per riuscire a comprendere realmente le persone di cui si occupano o si prendono cura.
Ma tornando ai bambini, mi colpisce sempre molto quanta meraviglia esprimano quando si avvicinano e affrontano ciò che per loro è sconosciuto fino a quel momento, e con quella sana curiosità che permette di comprendere la realtà nel vero senso della parola, cogliendo tutte le sue sfaccetature. Ma più di tutto è che i bambini hanno la splendida capacità di trasformare una cosa seria come una carrozzina elettronica (oddio… seria… forse per quello che costa!) nell’ispirazione per un nuovo gioco di fantasia. E se gli spieghi che devi usarla perché hai difficoltà a camminare o non riesci a stare in piedi, e che va da sola perché c’è una batteria ricaricabile, accolgono la notizia con tranquillità, come una cosa naturale, nuova, ma naturale.
Il bello è che i bambini non si fermano qui: hanno la straordinaria capacità di rapportarsi con una persona con disabilità con molta naturalezza; non vedono nella diversità di un tipo che si muove seduto su una sedia a tre o quattro ruote un limite alla possibilità di giocare con lui, fare domande (quante a volte!!), raccontare quel che fanno, mostrare con orgoglio i propri quaderni di scuola o spiegare per filo e per segno il funzionamento di tutti (!!) i giochi assiepati sulla libreria. Potrebbero addirittura considerare la mia carrozzina elettronica, visto il joystick e le molteplici funzioni opzionali, una sorta di videogioco reale, una fonte di sano divertimento, che in quanto tale è profondamente educativo.
Eh, i bambini… Per fortuna che ci sono loro! Gli adulti dovrebbero sforzarsi un po’ di più di mettersi alla loro altezza per comprenderli davvero ed amarli ed educarli in modo adeguato; e ad imparare da loro a vivere la vita di ogni giorno, nonostante tutto, con un po’ più di leggerezza e di stupore.

(11 aprile 2007)

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